Rinascita e Ricordi

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di Emanuela Maiorano

Era la prima o forse la seconda settimana di Gennaio. La neve ricopriva ogni albero, ogni filetto d’erba, ogni strato di cemento. Ricordo il bianco, il bianco immenso e profondo, ma soprattutto il freddo. Un freddo capace di entrare nella pelle e toccare quasi il cuore. La Chiesa di Sila assomigliava, quella mattina, ad una strana casa abbandonata, con i suoi muri giallastri, a tratti fatiscenti, con i suoi alberi secchi che la accerchiavano e con quel portone enorme che mi era davanti, che avevo visto così tante altre volte e che aveva preso quasi ad assomigliarmi. Eppure, quella prima o forse seconda settimana di Gennaio, qualcosa mi sembrava terribilmente e inverosimilmente diverso. Stringendomi nel mio cappotto rosso avanzai verso l’ingresso, sfiorando con attenzione il legno gelido. Con non poca fatica spalancai le ante. Il freddo che vi era all’interno pareva essere maggiore di quello all’esterno; colpa forse delle pareti poco spesse o di quel semi-buio stranamente soggettivo. Mi avvicinai ad una delle panche, congiungendo le mani sull’alto schienale quando delle dita gelide e rigide mi afferrarono un lembo di pelle nuda sulla spalla destra. Quasi con terrore mi scostai verso destra, rischiando di inciampare sul pavimento ruvido.
«Giorgia, tranquilla!»
Mi richiamò mia zia a mezza voce. Afferrai il petto, che aveva perso qualche battito tra le mani, e cercai di ricompormi.
«Zia, sei tu…che succede?»
Zia Luisa accennò un sorriso e si avvicinò ancora di più sporgendosi verso un mio orecchio.
«È tornato» sussurrò.
Senza alcun soggetto, senza alcun nome. Un verbo senza persona, un verbo che fermò il mio respiro all’altezza precisa dei polmoni. Girai i miei occhi sul suo volto asciutto e paffuto che si era inarcato ora in un nuovo sorriso, pieno e vivo.
«Davvero?» mormorai, con la paura e l’agitazione che si facevano la lotta al mio interno.
«Si! E’ a casa!»
Afferrò un mio polso, trascinandomi con tutta la sua forza verso l’esterno.
Il rumore dei miei tacchi prese a riecheggiare rumoroso nell’antica chiesa e i volti delle poche persone che la occupavano si voltarono all’unisono verso di noi.
Appena fuori un vento gelido prese a sfiorare con forza le mie guance e le mie gambe che a tratti fuoriuscivano dal lungo cappotto. Cercai di stringermi quanto più possibile nei miei indumenti quando Zia Luisa afferrò con maggior forza il mio polso, quasi volesse staccarlo dal resto.
«Zia, mi fai male! Rallenta!»
Provai ad urlarle, mentre leggeri fiocchi di neve iniziavano a scendere dal cielo grigiastro e a ricoprire per l’ennesima volta quelle strade.
«Non abbiamo tempo! Potrebbe andarsene da un momento all’altro!»
«Ma perché?!»
«Non abbiamo tempo!»
Ripeté con insistenza, con il fiato che le si stava consumando su per la gola.
Attraversammo strade, ponti, prati incolti tra il verde e il bianco della neve e solo dopo circa mezz’ora, il palazzo di Zia Luisa era di fronte a noi. Mimetizzato anch’esso con gli alberi che lo circondavano e con il cielo cupo che sembrava inghiottirlo.
«Siamo arrivate»
Allontanò la sua mano dal mio polso per poi frugare furiosamente tra le tasche del suo cappotto. Afferrò un mazzo di chiavi e me le mostrò.
Feci un cenno e continuai a seguirla in preda ad un ambiguo senso di confusione.
Esattamente, chi avrei rivisto?
Casa di Zia Luisa era bella, ma bella per davvero. Di una ricchezza senza eguali. Il calore che la occupava prese immediatamente ad incollarsi sulle nostre pelli che presero di nuovo a respirare. Mi scrollai la neve dalle spalle e dal piccolo cappello, per poi toglierlo dalla testa e rinchiuderlo tra le mie mani.
Zia fece altrettanto.
«Vieni, su»
Mi invitò con il capo a percorrere il corridoio. Dal fondo si udivano chiacchiere beate e fragorose risate.
«E’ successo davvero?»
Udii a pochi centimetri dalla porta della cucina.
Era la voce di Zia Monica.
«Mario, guarda chi ti ho portato!»
Urlò fiera, entusiasta, a pieni polmoni la Zia che riprese a cercare il mio polso. Avanzai di mia spontanea volontà al suo interno, mostrandomi sotto la luce tenue del mal posto lampadario.
E Mario si girò, con il suo sguardo concentrato e felice, ma non appena incontrò il mio, si mutò in uno sguardo assente e quasi confuso. Lo fissai a mia volta con determinazione per alcuni secondi per poi rivolgere, forse per vergogna, la mia attenzione al pavimento.
I ricordi, a volte, ritornano all’istante, forse non hanno bisogno neanche di un tempo quantificabile, ritornano e basta. Con i loro colori, i loro profumi e le loro emozioni. E non importa quanto lontani, sbiaditi, confusi, distratti essi siano. Ritornano. Ritornano con quell’intensità di cui solo loro sono capaci. Mario, ad esempio, era uno di quelli peggiori.
Il mio corpo si irrigidì di colpo, impedendomi qualsiasi gesto. Sentivo gli occhi di tutti puntati su di me e i loro pensieri pesarmi addosso. Intravidi all’improvviso l’ombra degli anfibi di Mario avanzare verso di me e udii il loro scricchiolare sulle mattonelle asciutte.
«Giorgia…»
Poggiò un dito sotto il mio mento, costringendomi a sollevarlo. Provai a spostare il mio sguardo altrove ma fu tutto invano. Colpa forse di ricordi.
«Non sei cambiata per niente»
Sentenziò, lasciando scivolare i suoi occhi vispi sul mio volto.
Lui, invece, era cambiato. Lo si vedeva dal suo corpo snello e più muscoloso, dai suoi zigomi segnati e da delle eccessive borse violacee che gli circondavano gli occhi. Aveva le mani ruvide, tipiche di quelle persone che le mani le sporcano e le lavano in continuazione. Ma più di tutto era cambiato perché indossava una tuta, una tuta di quelle militari, con quei tipici colori: verde, marrone, beige.
Era cambiato perché non era più solo Mario ma Mario il Soldato.
Mi sorrise e poi ritornò alla sua posizione iniziale.
«Tutto bene?»
Incrociò le braccia al petto, cercando di rassicurarmi con un sorriso.
Lo guardai in silenzio per poi esordire in un «si!» deciso ma vuoto.
Il cuore batteva forte, più forte che mai. Voleva parlare, farsi sentire ed io cercai in tutti i modi di zittirlo, di sopprimerlo con il mio testardo silenzio.
Ma quante cose avrei voluto dire, urlare, provare, giurare, richiamare, domandare. Sentivo che alle mie parole, se solo avessi parlato, non ci sarebbe stata una fine.
Perché Mario era stato via del tempo, tanto tempo, forse troppo.
Era Mario il Soldato e aveva lasciato la sua Giorgia, nel cortile di una Chiesa cieca e muta ma che aveva visto e udito di tutto.
Una Chiesa da sfondo alle nostre nascite, al nostro amore e soprattutto alle mie lacrime.
Perché sei ritornato?
Cosa vuoi da me?
Perché mi guardi così?
Lo osservai per l’intera serata mentre mille e mille domande si facevano spazio tra i miei pensieri. Zia Luisa di tanto in tanto ci guardava; voleva la nostra pace, il nostro ritorno. Me lo diceva con i suoi sorrisi e con i suoi muti cenni. Ma fino a che punto io lo desideravo?
Ricostruire è più facile di abbattere o il contrario?
Può un vaso rotto ritornare quello di una volta?
Il grande orologio a pendolo posizionato all’ingresso batté le due. Tutti, meravigliati, si guardarono tra di loro.
«Di già! Io devo ancora cucinare!»
Zia Monica iniziò a sbraitare e con velocità si mosse dalla sua sedia, afferrando e infilando il cappotto posizionato sulle gambe.
«Anch’io!»
Replicò Zia Luisa, mettendosi le mani nei capelli.
Osservai le persone che mi circondavano con una certa attenzione e capii che quello era il momento migliore per andare via.
Avevo sopportato quella situazione anche troppo.
Iniziai così a portare il cappello alla testa.
«Devo dirti una cosa»
Mi sussurrò Mario, con uno sguardo serio e apparentemente preoccupato. Ricambiai il suo sguardo con altrettanta preoccupazione prima di accennare un «si» con la testa.
«Vieni con me»
Cercò la mia mano e la intrecciò alla sua.
Raggiungemmo le scale del grande palazzo, posizionandoci sui suoi muri biancastri.
Quello agitato ora sembrava lui. Osservava con tensione i suoi piedi, muovendosi verso destra e verso sinistra senza sosta.
«Che devi dirmi?»
Gli chiesi.
Alzò i suoi occhi verso di me. Erano umidi e mi sapevano di freddo. La neve aveva ricoperto anche lui.
«Giorgia, sono tornato…»
«L’ho visto»
Gli risposi senza troppi giri di parole. Evidentemente non si aspettava una reazione del genere e prese ad agitarsi ancora di più. Avvicinandosi al mio corpo minuto.
«So che ho sbagliato, che sono stato impulsivo, che, forse, anche crudele ma io ci tengo a te»
«No, non è vero!»
«E per…»
«Perché le persone a cui tieni non le lasci da un giorno all’altro, non le lasci con il silenzio. Anzi…»
Sentivo una forza sproporzionata farsi spazio dentro di me.
Le parole e il mio cuore avevano avuto finalmente la meglio.
«Anzi, le persone a cui tieni non le lasci e basta. Non le lasci e poi ritorni a tuo piacimento»
«Giorgia, ti prego, posso rimediare!»
«No! No che non puoi! Le cose rotte non si aggiustano, rimangono rotte, perdono forma, e sai? Fa lo stesso la vita!»
Afferrò un mio polso ma io rigettai lontano la sua mano.
«Ora basta! Non voglio più vivere per la tua assenza e per tutti quei silenzi che tu, e solo tu, mi hai costretto a sopportare!»
Non sprecai una parola in più e scesi di corsa le scale. Facendomi spazio tra le strade innevate e gelide. Tra il cuore sul punto di esplodere e la mente completamente libera.

Non posso dire che all’epoca non me ne importò nulla, che non abbia sofferto, che quelle parole non siano state una lama tagliente anche per me.
No, ho sofferto e ho perso sangue anch’io.
Ma a volte la vita ci costringe a sanguinare, a morire per vivere di nuovo. Un po’ come fa l’araba fenice, che risorge dalle proprie ceneri.
Io voglio rinascere, dimenticare per quanto sia possibile e lasciarmi alle spalle quei ricordi: devastanti.

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