di Salvio Foglia
Mi è sempre piaciuto andare “oltre”, curiosare, scoprire.
Da piccolo, le mie vacanze in Sila le trascorrevo sulle due ruote della mia bicicletta costruita a due passi dal Monviso.
Scorrazzavo insieme ai miei amici per le strade di Lorica; li ritrovavo, come ogni anno, sotto casa.
Loro trascorrevano più tempo di me in Sila. Io vi arrivavo dopo una lungo soggiorno al mare.
Finita la scuola, mamma mi portava subito in spiaggia e lì passavamo quasi due mesi, ininterrottamente.
Mangiavamo quasi sempre sotto l’ombrellone. Sento ancora il profumo intenso dei panini con la frittata e scorgo nella memoria i pomodori, rossissimi, che addentavamo con un piacere immenso.
Portavo i segni della salsedine sulla pelle, ancora più evidenti quando mi asciugavo al vento. Il sale bianco avvolgeva le braccia e, sotto una vistosa abbronzatura disegnava grandi macchie bianche che sembravano nuvole poggiate su di un cielo stranamente scuro, che la peluria bionda di bambino tratteneva saldamente.
Che strano…
Oggi a mare facciamo la doccia quasi ogni cinque minuti, il sale dà fastidio… Oggi… Ma allora…
Bagnarsi con l’acqua dolce era come un’onta per noi piccoli, che dovevamo dimostrare di essere stati al mare più degli altri. Non dovevamo esibire un’impeccabile tintarella, bensì una gran quantità di minuscoli granellini saporiti, che, fissati dolcemente sulla pelle, quasi la offuscavano.
I miei compagni di giochi, a Lorica, non erano abbronzati come me: la mia “testa di moro” spuntava, invece, dalla maglietta bianca, evidenziando in maniera inconfondibile i giorni trascorsi al mare; inoltre esibivo con ostentazione le macchie sapide, ghirigori di sole e di acqua marina, impresse sulle braccia, facendomene gran vanto.
Ogni giorno che passava, però, la pelle si schiariva a poco a poco, il sale andava via e io iniziavo a confondermi con tutti gli altri.
Le strade del villaggio, anche se percorse dalle macchine, sembravano fatte apposta per dei fanciulli agitati e sicuramente irrispettosi del codice della strada.
Grandi cartelli gialli, piantati in bella vista ai lati della carreggiata, ammonivano gli automobilisti:
NON CORRETE, I BAMBINI GIOCANO!
La scritta, per noi ragazzini, era come una rivincita sul mondo dei grandi, un mondo che, implacabile, ci assegnava regole inappellabili, la cui inosservanza provocava immediate e spesso dolorose sanzioni.
E tanti musi lunghi!
Quella norma perentoria, scritta a caratteri cubitali, e ripetuta più volte lungo la strada, assegnava a noi il comando, tanto che, non di rado, apostrofavamo gli adulti al volante con le stesse parole del cartello, intimandone il rispetto, magari anche quando non ce n’era bisogno.
Qualche volta lasciavamo l’asfalto per immetterci nei sentieri che entravano nel bosco, mettendo a dura prova la nostra resistenza e quella delle biciclette.
E salivamo.
I pedali giravano arrancando, la spinta sulla catena era massima; fino a quando la pendenza prendeva il sopravvento e noi, sudati e grondanti come rivoli che sgorgano dal muschio, ci buttavamo sul prato straripante di pigne profumate e – ahi! – appuntite.
Respiravamo come mantici, vinti dal fiatone, ma, ogni giorno che passava, riuscivamo a guadagnare sempre qualche metro in più: era questo il nostro premio.
L’aria profumata di resina dominava il piccolo mondo intorno a noi. Ovunque aleggiava un senso di profonda pacatezza e il fluido leggera della brezza silana accarezzava dolcemente i nostri visi di ragazzi stanchi, ma indomiti, pronti a riprendere la via, in sella, non prima di aver sminuzzato tra i denti lo stelo rigido di un fiore secco colto là per là…
Le teste, appoggiate sull’erba e rivolte verso un morbido cielo azzurro, fantasticavano sulla forma delle nuvole, che brucavano placide su un prato tanto inconsistente quanto concretamente infisso nella storia del tempo.
«Guarda, un elefante! – A me sembra un ippopotamo… – Ehi, ma quella piatta di lato non assomiglia a un disco volante?»
Tutta quell’ovatta sospesa su di noi solleticava la fantasia, lasciandoci liberi di immaginare, comporre a piacimento un tema che nessuno avrebbe mai corretto.
Anche il sole aveva un chiarore tutto particolare.
L’aria di montagna regalava colori completamente saturi, avvicinava le cime dei monti quasi a poterle toccare. Il verde aleggiare dei faggi e la trama complessa dei pini si perdevano tra un saliscendi e l’altro, modellando una forma morbida alle asperità dei rilievi.
Qua e là una radura interrompeva il fluido incedere dei grandi alberi: il manto peloso dell’erba, verde in primavera, aveva lasciato il posto a calde zone di marrone, cicatrici estese che in inverno avrebbero accolto le ciaspole di frequentatori ansimanti e soddisfatti, sospesi sulla neve.
E noi, di nuovo in bici, a perdifiato…