di Daniele Ferullo
Aprii gli occhi lentamente e vidi il pavimento di legno sopportare il mio peso. Distesa a pancia in giù, sbattevo le palpebre per abituarmi alla poca luce della stanza. L’aria era umida e sentivo la pioggia cadere fuori. Provai ad alzarmi poggiando prima una mano e poi l’altra, vidi la mia pelle chiara e le unghie sporche. Mi misi a sedere e, una volta in piedi, fui colpita da una vertigine. Barcollai fino ad una sedia e in quel momento un lampo illuminò l’interno di una stanza impolverata. Mi sedetti lentamente e la vertigine in poco tempo passò. Mentre mi riprendevo iniziai ad osservare ciò che avevo innanzi: un quadro e tre mozziconi di candele bianche sostenute da un candelabro a muro, da cui iniziavano lunghe lacrime di cera che scendevano fino a toccare il pavimento. Il ritratto rappresentava una donna sorridente: capelli scuri ondulati raccolti dietro la nuca, un corsetto che ne stringeva le forme e terminava in una gonna che si ampliava vaporosa. Gli occhi erano due punti scuri come la terra, mi fissavano. Mi avvicinai al ritratto per coglierne i particolari e man mano vedevo nel riflesso del vetro il mio aspetto. Poi un altro lampo illuminò la stanza e vidi improvvisamente la mia figura rifrangersi nel vetro: era identica alla donna dipinta. Mi guardai: vestiti laceri, sporchi, che scendevano lungo il mio corpo; una ciocca argentata tagliava l’oscurità dei capelli e mi ricopriva il lato del viso. Non avevo memoria di come fossi arrivata lì, del perché fossi sdraiata sul pavimento, di chi fossi. Mi avviai alla porta d’ingresso, la vidi distesa in quello che sembrava un giardino lasciato a se stesso; in lontananza, tra un lampo ed un altro, riuscivo a scorgere gli alberi di una fitta foresta. La pioggia cadeva torrenziale, il cielo era scuro. Era notte.
Mi allontanai dalla soglia e mi diressi verso l’interno della casa in cerca di altre vie e trovai un corridoio che portava al restante dell’abitazione. La prima porta che incontrai era a sinistra, spalancata, mi lasciava intravedere il suo interno. Piccola nelle dimensioni, permetteva al suo mobilio di essere vivibile: esso era costituito da un letto matrimoniale, che poggiava la sua testiera al muro e proseguiva fino al centro della stanza, da due grandi armadi e da quello che sembrava essere un catino. Tutto era impolverato, le lenzuola erano ingiallite e macchiate in alcuni punti, ma erano sistemate a regola d’arte. Sul muro sopra il letto due piccoli ritratti: una sembrava assomigliarmi l’altro era un ragazzo, vestito bene, occhi penetranti, capelli corti. Cercai nella stanza qualcosa che mi potesse aiutare a scoprire dove fossi, ma niente. Trovai uno specchio e mi guardai, osservai il mio corpo riflesso e capii che ero io quella nel piccolo ritratto. In entrambi in quadri, però, mancava un dettaglio: l’argento tra i capelli. M’incamminai di nuovo nel corridoio in cerca di frammenti della mia storia. Trovai una stanza, ma non riuscii a riconoscerne la mansione per via del soffitto: le assi in legno che ne componevano la struttura avevano ceduto sotto l’umidità e ora lasciavano che l’acqua piovana fluisse in casa, anche se non era ancora giunta nel resto della casa. Ripresi a camminare nel corridoio e lo percorsi nella sua completezza non trovando altre stanze. Al termine c’era una porta in legno, era aperta e poggiava contro il muro. Degli scalini scendevano verso il basso ripiegando su se stessi su di un lato e dal profondo arrivava un odore che non riuscivo ad inquadrare. Iniziai a proseguire con cautela e seppur la casa sembrava essere la mia, le condizioni in cui verteva mi mettevano a disagio e l’aria stessa mi faceva rabbrividire. Mentre scendevo i gradini alla cieca, sentivo sotto i polpastrelli, sul muro, una strana sostanza vischiosa. Un brivido mi percorse la schiena, mi guardai indietro e vidi l’arco da cui ero scesa illuminarsi con un lampo che deflagrò poco dopo in un tuono. Il suono arrivò come un’onda verso di me, amplificato dalla stretta galleria che proseguiva in basso; sentii poi l’eco ritornare e capii che la strada per la profondità era lunga. Ripresi la marcia facendo attenzione e scendendo uno ad uno i gradini fino a quando non giunsi al termine delle scale. Continuavo a tenere le braccia larghe per seguire il corridoio fino a quando non urtai a qualcosa di legnoso. Si trattava di una porta socchiusa. Provai a tirarla verso di me e lo strano odore che avevo avvertito in maniera leggera fino a quel momento ora si liberò in maniera violenta, portandomi una leggera nausea. Attraversai quella che mi sembrava essere l’arcata della porta e poggiai le mani ai lati, toccando un muro in pietra da entrambe le parti. Scelsi di muovermi sulla destra seguendo la parete e sotto le dita notai qualcosa di vetroso e tubolare. Toccando l’oggetto per cercare di carpirne la forma, questo lentamente iniziò ad illuminarsi. Al suo interno un liquido giallo sembrava reagire alla presenza della mia mano, irradiando luce. Ciò che mi sembrava una campana si stringeva poi in un tubicino che a sua volta lentamente s’illuminava. Passai qualche minuto a tenere tra le mani quella strana forma di luce e in poco tempo tutta la stanza si illuminò di un tenue giallo.
Al suo interno, sotto i miei occhi, si andavano a palesare una serie di strani oggetti: piccole ampolle, distillatori, sifoni, una fornace… Tutti oggetti tanto strani quanto affascinanti, ma quelli che catturarono la mia attenzione furono due strutture che giacevano al centro della stanza: due piedistalli con sopra dei sarcofaghi dorati erano collegati da degli strani tubi dello stesso colore. Vicino a quello nei pressi della porta vi era un tavolo con al di sopra delle boccette, che riversavano il loro contenuto in parte sulla superficie legnosa, in parte sul pavimento. Il liquido sembrava vischioso allo sguardo e di colore verde acceso e delineava sul tavolo la forma di una mano. Mi avvicinai al sarcofago facendo attenzione a non toccare quella strana sostanza e vidi al suo interno uno spazio vuoto, ricoperto di petali di rosa e cuscini. Quando toccai il sarcofago sentii qualcosa al dito, come una puntura senza ferita, unito ad uno strano rumore che mi ricordava il principio di un fulmine ma più acuto. Decisi di tenermi lontana da quello strano oggetto, avevo timore per la mia vita dopo quell’evento inspiegabile. Quindi mi diressi verso l’altro sarcofago. Tra i due sembrava esserci una specie di struttura dorata, che passava e ripassava da uno all’altro, componendo delle spirali che andavano a unirsi in un crogiolo d’oro pendente dal soffitto. Dopo essermi avvicinata, studiai la forma del sarcofago e ne notai la perfezione: ogni tratto era splendente e levigato, non vi era sezione che non rifrangeva la luce artificiale della stanza. Presi coraggio e poggiai un dito sulla sua superficie, ma non avvenne nulla. Misi allora entrambe le mani e spinsi di lato il coperchio facendolo cadere sul pavimento. All’interno della cassa d’oro vi era una polvere grigia e un libro semisepolto. Raccolsi il volume e feci scivolare via i granelli. Mi portai vicino al tubo luminescente e sotto di esso aprii il tomo.
Sfogliavo le pagine bianche in cerca di qualche nozione, qualsiasi cosa che potesse essermi di aiuto per scoprire il passato, ma più andavo avanti e più l’angoscia mi attanagliava il cuore. Alla fine, verso le ultime pagine, trovai delle scritte svogliate.
“Solo ora capisco. Il tempo, che per me non ha più clessidra, ha trovato il modo di logorarmi. Chiusa la porta alla mietitrice, ti diluisci nella sabbia perdendo la tua consistenza originale. La signora del piombo, non potendomi portare con sé, ha deciso di colpirmi altrove facendo appassire la mia memoria. Oggi dovrò compiere l’atto, indugiare potrebbe significare dimenticare altri dettagli e già la sua voce rinfrancante è perduta nell’oblio. Se la morte nera ti ha imprigionato nel suo antro per tutti questi secoli, io ti libererò dai suoi artigli e ti darò ciò che Dio ha voluto togliere all’uomo.
Acerenthia, Anno Domini 1783”
Feci cadere il libro dalle mani, pesanti fitte mi colpirono le tempie e dal recondito riaffioravano come frecce nelle carni i ricordi sopiti. Tentennai verso la porta di uscita, toccai inavvertitamente quella strana sostanza verde e continuai sofferente in direzione del corridoio. Mi trascinavo sugli scalini, mentre la mia mente veniva riempita da secoli di ricordi di colui che mi aveva amata. Arrivata al piano superiore pensai che tutto era finito, sentivo del calore colare dal naso e dalle orecchie e mi pulii con la manica già sporca. Illuminata per un attimo dalla tempesta, notai che il sangue pulito sulla manica andava a ricoprire nello stesso punto delle macchie identiche più vecchie e fu allora che le fitte ripresero. Rivedevo davanti agli occhi la casa appassire nei secoli, decadere sotto gli attacchi della natura circostante, alzarmi e accasciarmi nel tempo sempre nello stesso punto. Le gambe non sorreggevano più il peso di tanta conoscenza e, costretta carponi, mi portai fino all’ingresso dove rinvenni cento volte nella mia storia e dove ancora una volta mi accasciai.
«Oh mio Dio! C’è qualcuno qui dentro! »
«Portala in salvo, presto! Qui sta bruciando tutto!»
«Signora, Signora! È svenuta»
«Muoviti!!! L’incendio ha preso il soffitto!». Sentii il mio corpo venir sollevato, portato via dal posto in cui giacevo. Aprii gli occhi lentamente e vidi la casa in fiamme allontanarsi e l’avvicinarsi di uno strano mezzo che faceva un rumore assordante.
«Signora… È sveglia! Sta bene?» L’uomo mi guardava, aveva un casco strano e una tuta variopinta. Provai ad aprire bocca, ma non uscì suono.
«Mi capisce? Sta bene?» mi domandò di nuovo, ma io non riuscivo a esalare verbo.
«Come si chiama? Perché era lì?» A queste domande mi resi conto che non ricordavo nulla del mio passato.