di Giuseppe Federico, Marisa Angotti, Alfredo Federico
Camminava a fatica. Il fardello che portava sulla spalla sinistra gli rallentava non di poco l’andatura. Nella mano destra la candela ballava mossa da una leggera brezza che proveniva dalle stanze in inferiori. L’odore acre della morte, le ombre che si allungavano al muoversi della candela, facevano gelare il sangue nelle vene del povero frate. Del resto aveva giurato castità, povertà e ubbidienza. Mancavano ancora altri sette giorni al termine del suo turno nei sotterranei. Il fardello andava depositato nella stanza più lontana. Non riusciva più a tenerlo sulla spalla. Lo buttò a terra senza nessuna attenzione. Di un sacco di patate si ha più riguardo. «vado a chiamare qualcuno per farmi aiutare. Non riesco a portare questo fardello fino in fondo» pensò, ritornando indietro su per le scale, rese scivolose per le innumerevoli infiltrazioni di acqua. Quando era sceso aveva rischiato di cadere a ogni gradino.
Arrivato in cima, anziché dirigersi verso il lungo corridoio interno, rimase immobile davanti al portone centrale, crocevia tra la sua attuale esistenza claustrofobica e la vita altra che un tempo gli era appartenuta. Da quella grande porta socchiusa, da quello spiraglio sul mondo, padre Carmelo, intravedeva la luna piena che risplendeva di luce fredda tutto lo spiazzo antistante e che prepotentemente s’insinuava all’interno quasi a voler spazzare via il peso di quel fardello del quale si era appena disfatto. Rapito dal bagliore gli sembrava quasi di aver trovato la via da percorrere per la salvezza divina se non fosse stato per quelle vampate di calore accompagnate da forti dolori che di sobbalzo gli tornavano in mente e strappandogli l’anima, gli ricordavano che era ancora lontana la via del perdono.
L’alternanza del suo sentire lo lasciò immobile, con i pensieri lontani, tra il sacro ed il profano, all’alba di quel lunedì maledetto che in sé raccoglieva i tumulti di una nottata di festa; il fuoco sul sagrato, le facce stanche e speranzose dei fedeli che quanti più pennuti lasciavano ai piedi della Madonna tanto più si sentivano meritevoli della Sua grazia, il suono cadenzato delle castagnette, le voci lamentose e devote, le danze vorticose che rimarcavano a dispetto di tutto il resto l’origine pagana di tutto quel frastuono, il ciclo vitale, la semina, il rituale primaverile e quell’indissolubile legame con la terra a cui tutto prima o poi sarebbe tornato.
Ripresosi dai pensieri convulsi, in quell’apparente stato di trance nel quali i ricordi lo avevano trascinato, s’incamminò verso la camera di frate Guglielmo. Bussò delicatamente e senza aspettare che dall’interno nessuno rispondesse, aprì la porta. In tutti i conventi le porte non si chiudono a chiave, non esiste la riservatezza personale, alla base del convento c’è l’idea di vivere tutti insieme in un solo corpo e una sola anima con Dio.
Spalancata la porta, il povero frate Carmelo si trovò uno spettacolo a dir poco raccapricciante. Per terra frate Guglielmo aveva disegnato un cerchio grande quasi quanto l’angusta cella. L’aveva disegnato con il riso. Concentrico a questo, un altro piccolo cerchio, al centro di tutto un altro mucchietto di riso. Tre cerchi concentrici. I quali indicavano le tre età dell’uomo: fanciullezza, età adulta, vecchiaia. Coincidevano forse non a caso con la nuova religione impostagli dai nuovi invasori: Padre, Figlio, Spirito Santo. Nella loro concezione arcaica, il mucchietto di riso al centro rappresenta l’uomo (che è allo stesso tempo anche il tempio di Dio) quello subito dopo la Madre Terra e l’ultimo rappresenta l’universo che tutto contiene e quindi anche Dio, colui che è. Ai quattro lati, quasi come se fossero messi ai quattro punti cardinali, quattro diverse pietre. I colori delle pietre erano blu, giallo, rosso, marrone. Indicavano i quatto elementi: acqua, aria, fuoco, terra. Acquamarina, topazio, rubino, cristallo di roccia.
Diversi oggetti cerimoniali: un pugnale, un laccio, delle piume, delle foglie. Sparsi per la cella ce n’erano tanti altri, alcuni assumevano un aspetto inquietante, le ombre degli stessi ballavano alla luce della candela mossa dall’aria entrata con l’ingresso di frate Carmelo. Appesa a un piccolo bastone, una testa di gallina, la sua ombra sul muro, ingrandita dalla prospettiva, sembrava guardasse con malignità il povero frate appena entrato all’improvviso, quasi a rimproverarlo di non aver aspettato ad entrare. Accovacciato nell’angolo in basso a sinistra, frate Guglielmo, accaldato, stava cercando di recuperare l’ultimo ingrediente per iniziare il suo rito. Aveva bisogno del seme di un uomo, il rito non sarebbe potuto iniziare senza.
Il povero frate Carmelo, ripresosi dal momento di smarrimento, salutò Guglielmo, il quale si trovava nel momento di massima elevazione a Dio, il momento in cui tutto il mondo intorno scompare, per pochi attimi si diventa Dio, si estrae il seme della vita.
«Frate Carmelo, ancora con questi riti di magia bianca. Lo sai che se ti scopre il priore sono guai seri»?
Il povero frate Guglielmo, ancora non si era ben ripreso dall’estrazione del suo ultimo ingrediente. Respirava affannosamente, tutto sudato sotto il saio pesante.
«Se il buon Dio, t’avesse dato l’educazione di aspettare ad entrare, t’avesse dato l’educazione di chiedere permesso e aspettare la risposta, come del resto fanno tutti in questo monastero… Avere le porte aperte non significa che devi per forza entrare senza bussare»
«Ho bussato…»
«…E sei entrato. Potevi anche risparmiarti la fatica di bussare. Comunque, che vuoi? Perché sei venuto a disturbare il mio rito? E non farmi la predica riguardo al priore, lo so che se mi trova a eseguire i miei riti non solo mi caccia, ma mi mette al rogo come le streghe».
«Mi devi aiutare. Il sacco è troppo pesante, da solo non ce la faccio a portarlo in fondo nell’ultima sala»
«Visto che sei qui, aiutami tu per primo. Finiamo il rito che sto facendo, dopo andiamo».
«Va bene, dimmi cosa devo fare»
«Conosci anche tu questo rito, proveniamo dallo stesso paese»
«Stai facendo il rito della fertilità?»
«Esatto»
«E chi ti ha dato il sangue?»
«La signora alla quale sto facendo il rito, l’ha raccolto da una sua amica vergine»
«Non vedo il serpente, dove l’hai nascosto?»
«È sopra la tua testa»
Voltato lo sguardo in alto, si trovò faccia a faccia con un cervone nero, la lingua dell’animale per poco non lo toccava. Fece un salto all’indietro. L’animale completamente innocuo lo guardava quasi stupito dell’eccessiva reazione del frate.
«Non aver paura, lo sai che non è velenoso».
«Certo che lo so, ma trovarmelo al buio così di colpo. “L’abitinu” dove l’hai messo?»
«Mi fa piacere che ogni tanto ti ricordi della lingua dei tuoi avi. Ormai più nessuno si esprime in dialetto, hanno tutti paura. Ecco qui “l’abitinu”». Così dicendo frate Guglielmo mostrò un sacchetto di stoffa. Dentro aveva già messo gli oggetti della signora per la quale stava facendo il rito. I capelli, le foglie con le quali le aveva strofinato i piedi, del peperoncino, del sale, una piuma.
«Abbiamo tutto?» disse frate Carmelo
«Si»
«Iniziamo…»
Si sedettero nudi uno di fronte all’altro intorno al cerchio. Gli altri oggetti erano disposti dentro ai cerchi. Il serpente si era arrotolato a ciambella sul lato destro di frate Guglielmo. Sembrava sapesse quale fosse il ruolo che doveva recitare, di fatti non era la prima volta che prendeva parte a tali riti. Quello che non sapeva, che lo stesso doveva assorbire parte dell’energia negativa che si sprigionava durante il rituale. Poco male, strisciando con il ventre a terra avrebbe scaricato ogni male, la madre terra assorbiva tutto. Il resto dell’energia finiva “nell’abitinu”, il quale andava in seguito bruciato.
Iniziarono pronunciando la preghiera sottovoce:
«vula vula mmiriella cu vulau la pruverella… vieni sacro Spirito, tu che tutto puoi. Invochiamo prima di tutto il tuo perdono per la nostra imperfezione. Umili servi ci accostiamo a te che sei grandiosità e gentilezza, certi che non resterai sordo alla nostra preghiera. Connetti, tu che puoi tutte le energie buone che abbiamo predisposto per te. I quattro elementi, il sangue purificato di una vergine a te devota, il seme umano simbolo di procreazione. Accogli la nostra preghiera, il nostro fratello serpente si farà carico di assorbire le energie negative. Ti preghiamo con cuore contrito di fecondare la nostra sorella desiderosa di vedere crescere la vita dentro se. Qualora non ci dovessi ritenere degni di stare alla tua presenza, ti preghiamo di impugnare il coltello cerimoniale e di trafiggerci in questo momento»
Iniziarono così a ripetere una litania che faceva rimbombare i loro diaframma.
«Grande spirito Padre…Grande spirito Padre…Grande spirito Padre…Grande spirito Padre…Grande spirito Padre…Grande spirito Padre…Grande spirito Padre…»
Alla settima volta che ripeterono tale litania, la candela fu mossa da una presenza. Sentirono il soffio del Grande Spirito entrare nella cella. Restarono assorti continuando a ripetere la litania. Avrebbero potuto perdere la vita. I due monaci restarono in meditazione con gli occhi chiusi. Il riso dei cerchi si smosse tutto, si disegnò la sagoma di un neonato in posizione fetale. A questo punto il serpente si mosse, toccando e destando i due monaci. Sembrava che il tempo si fosse fermato, non si resero conto se fosse passato un attimo oppure qualche ora. In realtà il tutto terminò in meno di sette minuti, lo sapevano dall’esperienza degli altri riti ai quali avevano partecipato. Inoltre il rito non avrebbe potuto durare molto, sarebbero stati scoperti non presentandosi alle preghiere. Ci voleva più tempo a preparare il tutto che a invocare il Grande Spirito.
Con la complicità di padre Carmelo il rito della fertilità giunse a compimento. I due frati ancora esaltati, nelle carni e nella mente, si vestirono e cercarono di dare ordine alla cella che padre Guglielmo aveva apparecchiato a dovere.
I due s’incamminarono insieme, muti uno di fianco all’altro, si diressero verso le catacombe. La luce fioca illuminava il corridoio e proiettava sulle pareti le ombre dei due frati. Incedevano, mancavano solo altre quattro stanze prima di raggiungere le scale che portavano agli inferi quando, dalla penultima stanza sbucò frate Rosario. Quest’ultimo, salutò i due puntando gli occhi dritti verso il loro viso. Padre Guglielmo, con il capo chino, ricambiò con un cenno quasi a voler nascondere la rilassatezza del suo volto. Padre Carmelo, invece, salutò Rosario guardandolo dritto negli occhi. Non aveva paura di svelare il peccaminoso godimento. Godimento che non era affatto segreto, tenuto conto che di buon grado con pratiche taciute o condivise ognuno là dentro si ritagliava il suo momento di libertà. Tanto meno aveva paura di svelarlo a padre Rosario che certo non brillava per il rispetto delle regole divine. Lo sguardo complice dei due, nascondeva segreti ben più scottanti del rito della fertilità.
Dopo il fugace saluto, i due frati raggiunsero le scale ed iniziarono la discesa verso le catacombe. Padre Carmelo odiava quel tragitto, non riusciva a sottrarsi a quella terrificante sensazione angosciosa in cui veniva di colpo gettato ogni volta che metteva piede su uno di quei gradini. Quel posto lo connetteva in modo repentino con la parte più buia della sua anima, quell’umido, quell’odore di acqua stagna, lo sbalzo di temperatura, lo freddava con ricordi che invece lui voleva solo rimuovere. Più si addentrava nelle viscere di quei sotterranei più gli sembrava di soffocare. Nitide le immagini gli tornavano alla mente come a volerlo ogni volta castigare. Quegli occhi neri, quei ricci perfetti che si scioglievano sui seni immaturi e puntuti, quella pelle olivastra, quell’odore agrumato che si mescolava al profumo della terra fresca. Le urla soffocate e ansimanti, le cosce strette che istigavano ad entrare in quel buio segreto, quel corpo tumultuoso, quell’apparente resistenza che spingeva contro quella furia bestiale. Questa volta padre Carmelo non ebbe modo di respingere i ricordi. I due giunsero al punto dove era riposto il sacco, lo afferrarono e sollevandolo si diressero verso l’ultima stanza. Arrivati, aprirono la porta, riposero le candele sul grande tavolo di legno massiccio, buttarono il sacco a terra. Nella stanza c’era l’acqua e la calce, i due ingredienti necessari ad avvolgere il contenuto del sacco. Nel monastero, i monaci arrotondavano il loro bilancio con le sepolture. I più ricchi nei loculi alle pareti, i meno ricchi, in fosse comuni. Ben presto i loculi alle pareti, finirono. Facendo credere che di loculi liberi ce ne fossero ancora tanti, i morti venivano tumulati nelle fosse comuni, ricoperti da uno strato di calce viva, la quale accelerava il processo di decomposizione e riduceva il forte odore di morte che si respirava nelle catacombe. Sopra la montagna, vicino al monastero, grazie alle “offerte” per le sepolture, era stata edificata una chiesetta, a nessuno se non ai monaci, era permesso varcare la porta delle catacombe. I parenti potevano andare a far visita ai loro cari, soltanto pregando nella chiesetta.
Sul monte, ancora resistevano antiche tradizioni pagane. Riti di magia bianca e nera. Si intrecciavano misticismo e mistero, leggende, credi e credenze. Per millenni, le genti che hanno abitato l’altopiano Silano hanno convissuto fraternamente, facendo della tolleranza e del rispetto dell’altro un punto di forza. Soltanto chi decideva di abbracciare la religione Cristiana, doveva rinnegare i vecchi riti e le vecchie credenze, molti invece, rinnegavano il passato solo a parole, essere ammessi nel monastero aveva i suoi vantaggi…