di Annunziata Procida
Selva nacque una fredda notte di luna piena. La vita fu il solo dono che ebbe da sua madre: giovanissima, senza nemmeno il tempo di vedere la sua creatura, svenne per non svegliarsi mai più.
La bambina fu subito adagiata dall’improvvisata levatrice, Santina, in una grande coperta di lana marrone e verde. La donna attese che quell’uomo, Nino, che stringeva, distrutto, il corpo esanime della moglie le dicesse cosa fare con quel fagottino che, tra il freddo e lo spavento non smetteva di piangere.
La notte trascorse lenta: la morte e la vita dividevano lo stesso spazio, lì più che altrove. La madre di Selva sarebbe stata la montagna, la stessa che aveva fatto da guida, da riparo e da amica per Nino.
Il giorno seguente i compagni di Nino provvidero alla sepoltura di Gemma: l’uomo aveva chiesto che la sua giovane sposa fosse lasciata sul manto d’acqua del fiume.
Le donne vestirono Gemma con l’abito nuziale; le cinsero il capo di fiori, al collo il prezioso pendente che il padre, da bambina, le aveva regalato al ritorno da un viaggio e dal quale ella non si era mai separata, al dito l’anello che l’aveva resa la moglie del capo dei briganti.
Nino era un brigante; uno dei più pericolosi che la montagna avesse mai ospitato. Chiunque lo avesse incontrato restava affascinato dapprima dal suo aspetto e poi terrorizzato dalla sua malvagità. Nino aveva sottratto Gemma a suo padre con la stessa astuzia con la quale saccheggiava le carrozze. Mai altra donna, prima di Gemma, era riuscita a rapire il suo cuore: la prima volta che la vide, sola con un’ancella nella folla, decise che doveva essere sua e così fu. Capelli rossi rame le incorniciavano il volto, impreziosito dalla bocca color vermiglio e dagli occhi verdi smeraldo. Gli abiti da nobildonna ben si addicevano a quell’animo gentile: forse sedici, diciassette anni, già sposa promessa di Girolamo, possente e ricco cavaliere giunto in Calabria dal Piemonte per prendere possesso delle sue nuove terre.
Nino e i suoi compari rapirono Gemma il giorno prima del suo matrimonio mentre, in carrozza, si recava dal parroco, Don Liborio, per confessare i suoi pochi peccati e le innumerevoli paure. I cavalli di Nino e dei suoi uomini accerchiarono il mezzo; Tonino, il più piccolo del gruppo, centrò con un colpo di fionda la testa del cocchiere, che, cedendo, allentò la presa delle briglie assecondando così i movimenti di Cenzino e Ciccio che poterono così avvicinarsi all’interno del mezzo dove Gemma e la sua compagna di viaggio, Santina, si stringevano temendo il peggio. “Mio padre” – disse la nobildonna senza alzare il volto dalla spalla dell’amica – “vi darà tutto l’oro che vorrete se ci lascerete andare!”.
Cenzino aprì con violenza lo sportello della carrozza, si avvicinò a Gemma e con un fazzoletto intriso di erbe aromatiche le fece perdere i sensi. Quando Gemma si fu addormentata, la prese e la caricò sul suo cavallo. Lo stesse fece, senza le stesse attenzioni, Ciccio con Santina.
Quando la carrozza si era fermata, Nino si era allontanato per prepararsi al primo incontro con Gemma o forse per sottrarsi alla vista di quel gesto che, persino agli occhi di un uno come lui, si faticava a considerarlo d’amore.
Giunto nel suo rifugio, fra i Giganti della Sila, fu raggiunto dopo non molto tempo dai suoi uomini che portavano, per la prima volta, una ricchezza che non avrebbe prodotto denaro.
Tutte le donne, di numero inferiore agli uomini del gruppo, avevano lavorato per rendere accogliente la dimora di Nino, dove lui avrebbe rivelato a Gemma la sua voglia di prenderla come sua unica compagna di vita.
Cenzino adagiò Gemma, addormentata, su una coperta di lana marrone e verde, uno dei pochi cenci di Nino ancora in buono stato che le donne avevano posto al centro della stanza per l’occasione. Quando Nino la vide, si accorse di quanta bellezza ci fosse in lei: Gemma era lì, a un passo da lui eppure egli seppe aspettare che l’effetto del sonnifero svanisse.
Gemma si svegliò, d’improvviso, come dopo un lungo un sonno. Non capendo dove si trovasse, chiamò Santina prima e suo padre poi. Santina non avrebbe potuto risponderle: Ciccio l’aveva portata nella casupola che condivideva con la sorella ed era rimasto lui solo a fare la guardia affinché, una volta risvegliatasi anch’ella, non fuggisse né gridasse. Gemma era dunque stata allontanata dalla sua fedele servitrice ed ora si trovava in compagnia di persone che erano molto diverse, per fisicità e per costumi, da quelle con le quali soleva trascorrere il suo tempo. Quando la giovine vide Nino gli disse: “Vi prego, non fatemi del male. Mio padre e il mio futuro marito vi daranno tutto il denaro che chiederete”. Nino le rispose che non voleva altre ricchezze: lui voleva lei, lei soltanto. Gemma non seppe trattenere le lacrime, ripetendo più volte che suo padre ora la stava sicuramente cercando e che il giorno seguente sarebbe dovuta diventare la moglie di Girolamo. A queste parole, Nino non seppe trattenere la sua ira: “Un piemontese vorreste sposare, signora? Uomini capaci di rendere ancora più povero un popolo che già abita nella miseria. Uomini senza scrupoli che saccheggiano le nostre terre con meschinità e violenza. Sapete cos’è la povertà, mia signora? No, voi non potete saperlo. Voi siete cresciuta nella ricchezza, avete avuto sempre di che mangiare. Vi siete mai chiesta da dove venisse il vostro mangiare? Dalla terra, signora mia. Dalla terra. La stessa terra che prima vostro padre, e ora quelli come l’uomo che vorreste sposare tolgono alla povera gente, facendola così morire di fame”. “Voi mentite!” disse Gemma rompendo il pianto. “No, signora. Mio padre è morto per avere un fazzoletto di terra perché senza la terra, signora mia, la gente qui muore. E quel Girolamo e quelli come lui non sono altro che dei ladri, degli assassini, venuti qui a ridurci loro schiavi e prenderci quel poco che è nostro”. “Voi mentite! Non è vero! Non è vero!”, l’incredulità aveva preso in Gemma il posto della paura. “No, signora. Le mie parole sono verità. E sono vere com’è vero che voi non sposerete Girolamo! Non finirete anche voi in mano a un piemontese! Voi, signora, sarete mia sposa”. Il pianto di Gemma allora parve inarrestabile. Nino la lasciò per andare da Santina: avrebbe spiegato a lei come stavano e come sarebbero dovute andare le cose. Santina era una di loro, in fondo: anche lei era figlia della terra anche se lavorava per il ricco signore del paese. La sorella di Santina, infatti, era morta di stenti insieme alla madre, che aveva cresciuto le sue due figlie senza un padre; e per lei, dai lineamenti aggraziati, fu più semplice entrare nelle grazie del proprietario delle terre e scampare così alla fame. Nino condivideva, a sua insaputa, con Santina lo stesso destino: anche lui era cresciuto senza genitori: di sua madre gli restava quella coperta verde e marrone nella quale la donna, prima di abbandonarlo, lo aveva lasciato.
Santina conosceva bene Nino; o, per meglio dire, conosceva bene le sue scorribande: più volte, in paese, aveva ascoltato tra la gente che, ora lo osannava ora lo condannava, il racconto dei suoi crimini. Sapeva che nulla avrebbe potuto fare contro il suo volere: Gemma lo avrebbe dovuto sposare. E così accadde.
Il matrimonio di Gemma e Nino fu celebrato in una piccola chiesa dove talvolta i briganti si riunivano a pregare: i momenti di sconforto, la paura, il bisogno di risposte attanagliavano anche l’anima di chi sembrava non averne una. Il corteo nuziale accompagnò Gemma fino al ponte di legno dove Nino la attendeva dall’altra parte. Nel suo avanzare si fermò per brevi attimi a specchiarsi nell’acqua del fiume. La nostalgia si rifletteva nei suoi occhi: avrebbe voluto che suo padre l’accompagnasse all’altare dell’imponente basilica dedicata a San Giovanni, luogo in cui si era celebrato il matrimonio dei suoi genitori, dove si era battezzata e dove ogni domenica dedicava i suoi pensieri al Signore. Avrebbe forse preferito una grande festa, altra musica ma sicuramente non un altro uomo.
Quando Gemma era stata rapita, suo padre aveva chiesto a Girolamo di aiutarlo nella ricerca ma questi si era rifiutato e aveva accusato l’uomo di non aver saputo vegliare su sua figlia: aveva da subito preteso la dote che gli era stata promessa; poiché non era stato lui a sottrarsi al patto, non poteva permettere che un calabrese – quello che lui considerava pur sempre un suo suddito – potesse pensare di farla franca così. Girolamo voleva quelle terre; le avrebbe ottenute con la forza: avrebbe ammazzato il padre di Gemma, lavando col sangue l’onta che l’aveva ferito nell’onore. La notizia di quel gesto vigliacco giunse alle orecchie di Santina che, con non poche difficoltà, raccontò l’accaduto alla sua signora. Gemma pianse ininterrottamente per giorni: amava suo padre più di ogni altra cosa al mondo e questo Nino lo aveva capito fin dal primo incontro con lei. Sapeva che ora toccava a lui: avrebbe vendicato egli stesso la morte del padre di Gemma e lei, a quel punto, avrebbe capito che poteva fidarsi e affidarsi a lui. Nino, a differenza di Girolamo, conosceva la montagna: durante una partita di caccia, il brigante e i suoi tesero un agguato allo “straniero”, il cui cadavere fu lasciato in pasto ai lupi.
Gemma aveva così imparato a conoscere e ad amare Nino: ormai sapeva che il suo cuore non poteva non essere che suo. Giunta dall’altra parte del ponte, Nino le prese la mano e si dissero “sì” davanti a Dio e giurarono eterno amore alla montagna che, più di ogni altro, li proteggeva, li nutriva, li custodiva col suo silenzio e la sua vastità.
Gemma e Nino attraversarono mano nella mano il ponte e raggiunsero quella che consideravano la loro grande famiglia. I festeggiamenti si protrassero fino all’alba: canti, balli, vino e cacciagione si alternavano per augurare felicità e prosperità alla nuova coppia.
Ben presto, Gemma si accorse di essere incinta e, durante una delle loro notti d’amore, rivelò a Nino il suo prezioso segreto. Quella notte si amarono come non si erano mai amati prima e da quel momento in poi iniziarono a immaginare il volto, le mani, gli occhi e il futuro di quel bambino che stava crescendo, giorno dopo giorno, nella pancia di Gemma.
Gemma aveva una sola certezza: quel bimbo doveva essere un brigante, come suo padre; doveva combattere per la sua terra e per la sua gente. Aveva anche immaginato, più volte, di diventare la madre di una bambina e, a volte, ne era persino sicura.
Nel pieno della notte, Gemma fu svegliata da un forte dolore al ventre e da un sogno che le era sembrato fin troppo reale. Per la prima volta, era stata la montagna a spaventarla. “Nino, Nino! Svegliati, Nino! Devi farmi una promessa! Promettimi che la nostra bambina – perché avremo una bambina, Nino! – la crescerai come un maschio! La crescerai come un uomo: sarà un brigante come te, Nino! E La chiamerai Selva: porterà il nome della foresta, sarà la foresta e da questa sarà sempre protetta! Selva, Nino! Si deve chiamare Selva: perché nessuno come la montagna ci ha dato tanto senza chiederci nulla”.
Nino si rese conto che il momento era giunto: stava per diventare il padre di Selva, la figlia della montagna.
“Santì, Santina, corri: Gemma sta partorendo”, gridò Nino, pronto a mantenere la sua promessa.