di Aldina Mastroianni
«E poi, ci sono le famose vacche della Sila…» frase che Giorgio emise insieme ad un sospiro prolungato, come a dire : Ecco, dopo curve e tornanti siamo finalmente arrivati, lo si capisce dalle vacche. Erminia si preparò al peggio. Sapeva già dove il padre sarebbe andato a parare : le vacche di Fanfani- il presidente del Consiglio che era andato di persona a constatare i progressi dell’Opera di Valorizzazione della Sila- divenute proverbiali perché erano sempre le stesse, che venivano trasferite con i furgoni da un posto all’altro, finché qualcuno non se ne accorse; cosa che aveva destato un enorme scandalo in tutto il paese…
E invece Giorgio tacque, continuando a guidare pensieroso.
Erminia decise di dedicarsi al paesaggio, staccandosi definitivamente dallo sciocchezzaio di Facebook. Spirava su tutto un’aria bucolica. Nei campi il grano era stato già mietuto, e i solchi delle macchine agricole erano occupati, a intervalli quasi regolari, dalle balle di paglia pressata. Il colore dorato delle stoppie sembrava riflettersi nell’aria, sgombra di afa. Qua e là si intravedevano casette coloniche con le orbite cieche in visibile abbandono; altre invece ampliate e restaurate, arricchite da festoni di petunie dai colori incredibili. Dunque qualcosa in meglio era cambiato dai tempi di Fanfani, si disse Erminia. L’aria cominciò a scurirsi, man mano che si infittivano i rami dei pini larici. Qualche propaggine di lago si distingueva, azzurra, sul fondo; e lungo le pendici erbose, eccole le vacche, le placide vacche: intente al loro pasto, si spostavano lentamente; e ogni tanto, plaf! (“Attente a dove mettete i piedi, bambine”non mancava di dire la mamma, ogni volta che lei e Maria Chiara si avventuravano verso le rive del lago).
Eccola, la Sila, quella che si era abituata a vedere sin da bambina; “la nostra Svizzera” diceva il suo professore della Media. Fra poco, dopo aver costeggiato il lago, sarebbero arrivati sulla diga, e alla cabina dell’ Enel ormai in disuso.
La nostra Svizzera, sì. Però… C’era un però, in tutta quella bellezza. Come in uno specchio incrinato, che faceva dubitare della sua autenticità. Lo pronunciò a voce alta, quel però.
«Però papà, c’è qualcosa che non torna nel paesaggio, come in tutto quello che mi hai sempre raccontato. Mi sembra, come dire…tutto finto. Pensa: i laghi sono finti, artificiali. Le vacche, come tu stesso mi dicevi, sono d’importazione. E anche i contadini, tutti arrivati da fuori, al tempo della riforma agraria… I villaggi turistici e le casette in legno dipinto, tutte imitate, dallo stile altoatesino o nonsoche. Ben poco, come dire?.. di autoctono…»
«Come ben poco?! Pensa piuttosto ai boschi…boschi di cui oggi rimane solo una minima parte, ma il nome Sila deriva proprio da silva, la selva dei romani…o al lupo della Sila. Estinto, purtroppo.»
«Appunto. Ma l’identità la fanno soprattutto le persone, e il modo in cui si raccontano: e qui nessun Cappuccetto Rosso, nessuna fiaba tipo fratelli Grimm, nessuna principessa infelice, nessuna storia romantica insomma. D’accordo, c’erano i briganti che forse erano tanti Robin Hood, ma con le signore, a quanto ne sappiamo, non erano poi così gentili.»
Giorgio fece per aprire la bocca, poi la richiuse, interdetto. Sapeva bene quello che voleva dire sua figlia, con le sue polemiche a volte sterili. Il vuoto culturale che lei avvertiva nella storia calabra, l’incapacità di ricercare le radici, o anche di inventarsele.
Riprese, dopo qualche attimo di silenzio.
«Qualche fiaba, se andiamo a cercarla, si trova… e anche qualche bella storia d’amore. Quelle nate nei nostri campeggi, per esempio.»
«Dio, ho toppato», si disse Erminia.
Ora avrebbe cominciato , con le vicende della sua comunità, che per la prima volta era frequentata da giovani di ambo i sessi e in città imperversavano i pettegolezzi. E poi quei magici campi estivi in Sila, dove arrivavano giovani da ogni parte d’Italia, tutti in cerca di qualcosa , perché c’erano tanti fermenti – e metteva un accento particolare su quella parola, “fermenti”. Era quella l’epoca, sulla fine degli anni sessanta, in cui anche le ragazze cominciavano a muoversi, superando vecchi pregiudizi: era arrivato anche un gruppo di studentesse pugliesi, al seguito di alcuni colleghi di università : tra queste Sandra, la madre di Erminia. Lui portava una casacca da figlio dei fiori, lei lo aveva subito incantato con il suo largo, franco sorriso, i lunghi capelli ricci sorretti da una fascia. Lui la prendeva in giro per il suo accento- le “a” pronunciate come “e”- lei era rimasta colpita dalle sue argomentazioni polemiche. Era stato colpo di fulmine, amore a prima vista. Si erano sposati dopo un breve fidanzamento, giusto il tempo di finire gli studi.
E se ora avesse ripercorso gli stessi ricordi, la sua voce a un certo punto si sarebbe arrochita, fino quasi a spezzarsi.
E invece non proseguì, pensando forse che non avrebbe retto all’emozione: la sua inarrestabile voglia affabulatoria scantonò, prese un’altra direzione.
« Voglio raccontarti un fatto realmente accaduto tanto tempo fa, che avevo totalmente dimenticato e che ho ricordato guardando delle vecchie fotografie su una rivista. Dicevi che non hai mai sentito una storia romantica relativa a queste montagne, a questi boschi. Ma cosa c’è di più romantico di un treno, anzi, per meglio dire, di un trenino a vapore? Quello che sbuffava e ansimava inerpicandosi per tutte queste salite, e il trillo di un campanello ne annunciava l’arrivo ai passaggi a livello, mentre la sbarra si abbassava… oggi sembra appartenere a un’era archeologica, e invece il trenino, il glorioso trenino delle Ferrovie Calabro-Lucane, è stato il primo mezzo che ha messo in comunicazione la Sila, che fino ai primi decenni del Novecento era considerata quasi impenetrabile, con città e pesi vicini. Quei vagoni interamente rivestiti in legno trasportavano soprattutto storie di fatica e di emigrazione, ma anche le prime allegre compagnie di gitanti che partivano alla scoperta dell’altopiano. »
«Una di queste comitive era formata dai componenti di un coro popolare proveniente dalla nostra città, molto conosciuto negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale . I canterini giravano per tutta la Calabria e andarono finanche a Roma per le nozze del Principe Umberto, ma frequentavano talmente la Sila, e i villaggi turistici che in quegli anni stavano nascendo, da meritare il nome di “Canterini silani.”
Tra i fondatori del gruppo vi erano personaggi allora di un certo rilievo, artisti, musicisti, professori; tra loro spiccava la maestra Anfuso, nota come organizzatrice di manifestazioni fasciste e grandi parate sul corso principale, ma anche per le sue notevoli attitudini artistiche: sue le canzoni eseguite dal coro – tra cui il testo della “Calabrisella”- e le coreografie che le accompagnavano. Il regime, dal canto suo, attraverso l’Opera Nazionale Dopolavoro incoraggiava la formazione di gruppi tendenti a recuperare le tradizioni popolari, in quanto li considerava ottimi strumenti di propaganda.
Il coro, che si riuniva per le prove appunto nei locali del Dopolavoro ferroviario, era formato da persone di diversissima estrazione sociale: molte donne dell’alta borghesia ambivano a farne parte , era di moda allora, per le signore, indossare il costume della “pacchiana”, la donna del popolo. Ma le ragazze erano scelte anche per il talento canoro e la grazia nei movimenti; gli uomini, molti dei quali di estrazione modesta, oltre che essere intonati dovevano dimostrare la baldanza del pecoraio e impegnarsi in scatenate tarantelle, oppure saper suonare uno strumento; alcuni, pur non avendo studiato la musica suonavano perfettamente a orecchio, chi l’organetto, chi l’armonica a bocca, chi la chitarra. Tra loro ce n’era uno in particolare che, con la sua voce melodica , sapeva improvvisare abilissimi duetti con la soprano: si chiamava Tommaso, ma per tutti era Tumasi. Era magro e asciutto, di carnagione scura , con dei baffetti sottili e i capelli corti e crespi. Conquistava tutti (o, per meglio dire, tutte) con la sua simpatia e le sue battute pronte.
Un giorno la signora Anfuso se ne arrivò con una ragazza nuova, figlia di un suo collega, così disse; anzi ci tenne a precisare che il genitore era molto geloso e gliela aveva affidata a malincuore, dopo molte raccomandazioni. L’aveva scelta perché, oltre alla bella presenza, aveva una bellissima voce; anzi, bisognava proprio che l’impegnasse in un duetto. La cosa destò non pochi malumori tra le voci soliste già esistenti, che l’Anfuso abilmente dissolse con una nuova divisione dei compiti.
Trascorso un primo periodo di adattamento, del resto, la nuova arrivata seppe farsi accettare da tutti, grazie anche alla sua innata modestia.
Felicia, era questo il suo nome, abitava in un villino di campagna, allora molto distante dall’abitato; quando si recava alle prove era sempre accompagnata da un familiare o da una donna di servizio. L’ho vista in una di quelle fotografie che ti dicevo: aveva grandi occhi chiari, un sorriso disarmante e capelli morbidi arricciati col ferro, come si usava allora. Ma chi l’ha conosciuta dice anche che fosse molto simpatica e di compagnia.
L’Anfuso ritagliò subito il ruolo per Felicia: la voce soprano nella sua ultima canzone, “A lincella”. Suo partner, naturalmente, doveva essere Tumasi.
L’argomento della canzone era il solito: l’approccio amoroso, che abitualmente avveniva vicino a una sorgente, dove le donne si recavano per attingere l’acqua.
Lo spasimante si faceva coraggio e si avvicinava con un pretesto, chiedendo dell’acqua; ma una giovane virtuosa poteva rispondere alla richiesta solo con un diniego. Molto era affidato anche al linguaggio degli sguardi e dei gesti: dietro l’apparente umiltà del maschio si intuiva la sicurezza del successo, mentre la scontrosa modestia della ragazza si tramutava pian piano in cedevolezza.
Ma prova che ti prova , canta che ti canta, Tumasi si immedesimò talmente nella parte che a un certo punto capì di essersi preso quella che oggi chiamiamo una solenne “cotta” per la sua nuova partner. Viveva tutta la sua giornata aspettando quell’unica ora in cui si sarebbero incontrati, entrando in ambasce se la bella faceva qualche minuto di ritardo; e quando si separavano assaporava di quell’ora ogni sorriso, ogni sguardo in tralice, ogni parola gentile. Pure i compagni si erano accorti di qualcosa, e si scambiavano sorrisetti e gomitate. Quanto a Felicia, a volte sembrava manifestargli interesse, a volte si chiudeva in un silenzio gelido, come a voler mantenere le distanze. Tumasi si rendeva conto dell’abisso che li separava: lei figlia di persone perbene, lui modesto artigiano; lei istruita lui incolto, anche se molto sveglio; ma insomma , anche a quell’epoca era legittimo sognare.
Con l’estate, arrivò anche la prima trasferta del gruppo: Villaggio Mancuso, per l’inaugurazione dell”Albergo delle Fate”. Il Villaggio, con le sue casette in legno dipinto, era stato ideato dalla famiglia Mancuso con finalità turistiche: l’albergo – anzi allora mi pare si chiamasse “Ritrovo delle Fate” costituiva, insieme alla Rotonda nella piazzetta, l’elemento più caratteristico.
Situato a metà di un declivio, immerso com’era nel bosco di pini e abeti, con le ringhiere di legno traboccanti di fiori, sembrava veramente l’ambientazione ideale per un idillio. Quando arrivò a destinazione , il nostro coro trovò una gran folla ad aspettarlo.
I canterini, guidati dall’Anfuso e da Serrano- il factotum del gruppo, ma potremmo anche definirlo il capocomico- alto e nodoso come il suo bastone da pecoraio, si avviarono tra due ali di folla per la salita che porta all’albergo. Qui si esibirono nei loro pezzi più famosi, accompagnati dai battimani degli spettatori. Al termine dello spettacolo si misero in posa per le foto ricordo : ma forse proprio in quella circostanza dovette succedere qualcosa ai due innamorati: fu quello il momento in cui Tumasi si rivelò, secondo me. Infatti sia lui che Felicia, presenti nella prima foto, mancano nella seconda. Non sappiamo come ciò avvenne , e con quali parole. Probabilmente la risposta di Felicia non fu del tutto negativa. Lo si capì dal rossore delle sue guance, dagli sguardi bassi e dal silenzio che entrambi mantennero sulla via del ritorno. Sul treno che li riportava a casa Felicia fu assorbita dalla contemplazione del paesaggio, dalla solennità degli alti pini che forse solo allora le comunicavano il loro senso di mistero- o le incutevano un timore che si mescolava a quello già presente nel suo animo, chissà.
Continuarono a incontrarsi alle prove, ed era l’unica occasione in cui potevano scambiarsi qualche parola; negli altri giorni Tumasi poteva solo seguirla da lontano, quando si recava a Messa o , più raramente, a fare due passi con qualche familiare, o amica. Questa storia durò per un paio d’anni, o più; allora il corteggiamento – anzi si diceva “fhari all’amuri” in senso molto platonico – poteva trascinarsi per molto tempo.
Poi arrivò, nell’estate del ’39, l’occasione che tutti aspettavano, organizzatori e gerarchi in primis, e che faceva gonfiare il petto all’Anfuso, già generoso di suo, di frasi inneggianti al Duce e al fascismo.
Il commendatore Talariti, che in seno all’organizzazione era il membro pù autorevole, li convocò appositamente per un’importante comunicazione: il coro avrebbe partecipato al “Raduno dopolavoristico” di tutta l’Italia meridionale, che si sarebbe tenuto a Camigliatello – oggi si chiama Silano, ma allora si chiamava Bianchi – in onore del quadrumviro Michele Bianchi, che proprio quel villaggio aveva fondato ed era scomparso qualche anno prima.
Anzi, il commendatore sosteneva di aver saputo, da fonte riservata, che lo stesso Mussolini sarebbe stato presente. La notizia fu accolta e commentata con grande emozione; i preparativi divennero concitati e le prove si susseguirono con più intensità, a tutto vantaggio dei nostri innamorati.
Giunse finalmente il giorno fatidico, la tensione era massima.
Per la sua storia familiare, Tumasi era, per così dire, “allergico” ai saluti romani e agli alalà; ma aveva dovuto farci l’abitudine. E poi la contentezza di poter stare vicino a Felicia, di poterle sfiorare la mano, aveva ragione su tutto il resto. Invero Felicia quel giorno era insolitamente taciturna, mentre intorno sul treno le compagne ridevano e scherzavano, e rispondeva con monosillabi alle sue premurose domande sul suo stato di salute. Si rianimò solo quando, dopo un viaggio massacrante – erano scesi a Cosenza dove avevano preso la coincidenza per Camigliatello – poté respirare l’aria frizzante dell’altopiano. Lei e le compagne si mescolarono presto alla folla variopinta cercando di individuare dagli accenti i luoghi di provenienza degli altri gruppi, distinguendo subito il “vancali” delle donne di Tiriolo, ammirando la ricchezza del costume albanese…
Anche le pacchiane di Nicastro attiravano l’attenzione: diversi sguardi, soprattutto maschili, si poggiavano sui fianchi floridi fasciati dalla pittoresca “coda” formata da una larga gonnella plissettata, costata alle sarte nottate di lavoro, che veniva rimboccata sulla schiena per lasciare scoperto il “panno rosso”. Quanto ai maschi, erano perfettamente intonati al paesaggio: rievocavano talmente i briganti, con il loro costume…
A un certo punto, fu annunciato l’arrivo delle autorità. La folla fu percorsa da un fremito, si diffuse un mormorio: “Il duce! Il duce!”Un corteo fendette la folla, capeggiato da una selva di gagliardetti e camicie nere. Sfilarono in pompa magna prefetti, gerarchi, segretari di partito; ma… del duce, neanche l’ombra. Si avvertì distintamente un “Ooh” di delusione, presto sepolto da qualche irrispettosa risata. Fu quello l’unico neo della giornata, presto dimenticato. Dopo che le autorità ebbero reso omaggio al monumento di Bianchi, arrivarono finalmente al luogo dove si doveva tenere la manifestazione: una spianata dove era stato allestito, all’ombra di maestosi pini, un palco adorno di coccarde e pannelli di propaganda fascista.
Per il coro di Nicastro fu un vero trionfo. Chiamati sul palco verso la fine della mattinata, i canterini si esibirono in numeri diversi; fra tutti , il duetto tra Tumasi e Felicia , accompagnato da una sapiente coreografia di pacchiane reggenti una “lincella”, che eseguivano un coro muto, era certamente il più struggente; ma lo era anche perché sia Tumasi che Felicia gli davano un’inflessione particolare, derivante dalla consapevolezza di un amore impossibile.
Terminato il numero, Felicia riuscì ad appartarsi, fingendo stanchezza. Tumasi non tardò a raggiungerla, sul retro del palco. Mentre i ballerini si scatenavano in una tambureggiante tarantella,
Felicia accennò vagamente a Tumasi del brutto momento che stava attraversando in famiglia. Forse volevano imporle un “partito” che lei rifiutava. Ma di più non volle dire: stavano vivendo una giornata perfetta, non aveva intenzione di offuscarla con pensieri tristi. Rimasero per un po’ mano nella mano, attenti a non farsi scoprire dalla vigilanza occhiuta dell’Anfuso, finché non vennero richiamati sul palco a bissare e a prendersi un’altra dose di applausi, esibendo i loro sorrisi più smaglianti.
Quanti, fra i presenti, avrebbero ricordato per molti anni quella escursione a Camigliatello come una giornata perfetta! Non una nube offuscava il cielo, in quel giorno di mezza estate: e se a Villaggio Mancuso si percepiva, nella frescura dell’albergo immerso tra gli alberi, un senso di mistero e quasi di sgomento, Camigliatello, con il sole che esaltava lo smeraldo dei prati e degli altissimi pini, offriva l’immagine più ridente della Sila, in cui godere una giovinezza beata e senza tempo.
Altre nubi, molto più cupe, si addensavano all’orizzonte; stava per scoppiare uno dei più tremendi conflitti, e qualcuno non gli sarebbe sopravvissuto; ma nessuno dei presenti, fascisti e non fascisti, sembrava in quel momento darsene pensiero.
Al termine della manifestazione, conclusasi anche l’inevitabile coda di premi, bis ed ovazioni, tutti corsero a farsi immortalare sotto lo sguardo occhialuto del quadrumviro. Su una di queste foto si può ancora notare una scritta vergata con grafia elegante, in alto a destra: “Camigliatello Bianchi, anno XVII dell”Era fascista”.
Ma vi è un’altra fotografia, che ha attirato particolarmente la mia attenzione . Le donne, che reggono tutte in mano una “lincella”, sono schierate lungo la parete di un edificio, forse la caserma della Forestale. Gli uomini, come si usa in questi casi, seduti in terra o accosciati. Vi è lei, al centro della foto, che si gira ridendo verso la compagna, forse facendo un commento sulla sua esibizione; lui, che, ultimo della fila, si gira all’indietro, come recependo le sue parole. Sembra che un flusso magnetico attraversi la scena, da un capo all’altro!
Ma probabilmente in quel momento Tumasi, anche se apparentemente sereno, era tormentato da altri pensieri. Avrebbe magari potuto convincere Felicia a una fuga amorosa: una “fhujitina”, come si suol dire. Avrebbero potuto sposarsi in una graziosa chiesetta che aveva intravisto dal treno; e qualcuno dei suoi amici non si sarebbe rifiutato di fargli da testimone. E poi, avrebbero potuto vivere in una di quelle baite di legno immerse tra gli alberi, dopo aver fatto le provviste per l’inverno… Ma nello stesso tempo capiva che le sue erano tutte fantasticherie. Non sapeva con quali mezzi sarebbero vissuti, e poi aveva troppo rispetto di Felicia per proporle una cosa simile.
A quella manifestazione del Dopolavoro ne seguirono poche altre; né mai più i canterini tornarono in Sila. E poi, a un certo punto, Felicia smise di frequentare le prove. Tumasi si disperò, cercò di rintracciarla in altro modo, si permise a un certo punto di gironzolare intorno al suo villino: tutto inutile, non riuscì neanche a vederla dietro le imposte socchiuse di quella che sapeva essere la sua camera.
Poi, un giorno , i suoi amici del coro lo presero da parte, con cautela, per dargli una tragica notizia: Felicia si era suicidata ingerendo acido muriatico.
La notizia suscitò in città uno scalpore enorme, anche se i familiari avrebbero voluto farla passare sotto silenzio.
Uscì fuori anche il nome di Tumasi, sussurrato a mezza bocca. I più pettegoli misero in giro la notizia che la sventurata ragazza fosse incinta, pur sapendo che ciò non poteva essere.
Naturalmente Tumasi ne uscì distrutto. Non poté neanche seguire il funerale , se non da lontano.
Il pensiero che lo tormentava era soprattutto uno: quale sofferenza aveva dovuto vivere Felicia, per potersi dare una morte così orribile? E lui, che non aveva potuto fare niente per aiutarla! Si sentiva un vigliacco, per non aver realizzato il rapimento che aveva progettato.»
«E poi?» incalzò a questo punto Erminia.
«E poi arrivò la guerra, e per Tumasi fu una salvezza. Fu richiamato sotto le armi, partì per la Grecia e vi rimase per molto tempo. Si trovava a Cefalonia durante l’eccidio, ma riuscì a salvarsi. Tornato in patria, vinse un concorso e divenne impiegato comunale, lasciando il suo vecchio mestiere. Poi incontrò una ragazza, di diversi anni più giovane di lui, che aveva fatto parte anche lei del vecchio gruppo folkloristico, e la sposò. »
« Papà, ma… si tratta del nonno! L’avevo capito dal nome, ma…non volevo interromperti.»
«Sì, ed è stata la nonna che mi ha raccontato tutta la storia. Da lui, non ho mai sentito una parola. E io…» continuò con la voce incrinata, come ogni volta che il discorso prendeva una certa piega, «io l’avevo completamente rimossa. Poi, come ti dicevo, quelle foto…una folgorazione. E, spontaneamente, ho fatto un accostamento tra me e mio padre, anche se siamo stati così diversi. Tutti e due abbiamo avuto una grande storia d’amore che è nata in Sila, in mezzo a questi boschi meravigliosi; entrambi abbiamo perso questo grande amore. Anche se, a pensarci bene, io sono stato più fortunato: sono debitore a tua madre dei trenta anni più belli della mia vita. »
Il telefono cominciò a vibrare: erano gli amici che. impazienti, li aspettavano. Presi dal racconto, padre e figlia non si erano accorti di aver superato il bivio per il ristorante.
«Sai che ti dico, papà? » disse pensierosa e finalmente conciliante Erminia, mentre Giorgio faceva manovra per tornare indietro. « Un giorno, non so quando, questa storia la scriverò. E poi…prima o poi dovrò salire su questo benedetto trenino, se ancora esiste. »