di Marco Cavaliere
– Sanna?
– Dimmi, Betta.
– Partiamo stanotte, vero?
– Partiamo stanotte, Betta.
– E da dove? Lo sappiamo da dove?
– Certo che lo sappiamo, tesoro.
Sorelle mica ci si nasce. Tutta quella storia che quando nasci e un’altra persona è nata dalla stessa donna allora vuol dire che siete fratelli o sorelle, sono tutte stupidaggini. Perché quelle, purtroppo o per fortuna, mica puoi scegliertele. Sono tutti accidenti quelli, la parola sentimenti fa solo rima: ma sono cose completamente diverse. Davvero.
Sorelle ci si deve sentire dentro. Non è una questione soltanto di sangue, di cellule, di geni. Sorelle è quando sei bambina, guardi un’altra bambina e nei suoi occhi ti senti a casa. Anche se sei in mezzo ad un bosco e la neve ti cade in testa. Sorelle è quando sei Betta, stringi la mano di Sanna mentre passeggi e ti accorgi che in quel momento ciò che stringi nella mano è solo un’estensione della tua, di mano, che siete proprio la stessa cosa. Sorelle è quando sei Sanna, stringi la mano di Betta e ti ricordi che quei nomi ve li siete dati voi per gioco, un giorno. Neanche ve lo ricordate davvero, quando.
Che poi all’inizio Sanna neanche ti piaceva più di tanto, come nome. Allora avevi scelto Betta quasi per ripicca. È un nome un po’ bruttino, Betta. Ma sono nomi come cicatrici, quelli lì. Danno un leggero fastidio all’inizio, come quando ti viene da grattarti ma non sai di preciso dove. Poi passa, semplicemente diventa normale, quasi giusto. Diventi tu, insomma. È così che le cicatrici diventano parte di un corpo, è così che i ricordi scomodi diventano parte fondamentale di una vita.
E quel nome, da cicatrice, finisce per diventare l’unico vestito che ti sta bene addosso.
– Sanna.
– Sì?
– Senti freddo?
– No che non ho freddo, piccola.
– E come fai a non sentire freddo?
– Ci sono i tuoi capelli a scaldarmi, Betta.
– Perché sono come il fuoco, Sanna?
– Esattamente, tesoro. Proprio come il fuoco.
– Posso abbracciarti, se vuoi. Magari poi però hai caldo.
– Dici?
Sanna ha addosso un vestitino troppo leggero per abbinarsi con la neve della Sila. Nocciola e leggero. Un po’ scollato, ma non troppo. Uno di quei vestitini che li guardi e dici Beh, questo vestitino starebbe bene dappertutto ma non con la neve della Sila addosso.
Betta no, assolutamente. A lei i vestiti non piacciono affatto. Neanche in estate li mette, quando lei e Sanna si sdraiano sui prati verdi e perfetti come quelli delle pubblicità, al sole, riempiendosi le tasche di raggi. Betta preferisce avvolgersi in un vecchio cappotto di Sanna che lei non usa più, ed essere una cosa sola, sapete, con quei capelli rossi che ricordano tanto l’Irlanda, addomesticati in un cappellino bianco e quelle sue scarpe di pezza vagamente sfondate sul tallone. Le si vedono solo gli occhi, grandi e azzurri come quelli di Sanna, che puoi vederci dentro l’oceano e affogarci, ma con calma. Ci affoghi con calma, negli occhi di Sanna e Betta, perché affogare con calma è un modo come un altro per non morire poi completamente. È più un andare via, ma con consapevolezza.
– Sanna?
– Dimmi.
– Mi manca mamma.
– Anche a me manca, Betta.
– Sì, ma a me manca anche papà.
– E allora siamo proprio pari, sai piccola mia?
Sanna ha dodici anni ma è già grande. È nata il 14 febbraio del 1983, ed è già grande.
È grande perché Betta è nata il 14 febbraio del 1988, e quando devi prenderti cura di una copia di te stessa, cinque anni più piccola, per logica deduzione non puoi fare altro che essere grande. Sette e dodici anni, maggiorenni per un pelo solo se sommate, così piccole da risultare praticamente invisibili, nell’immensità di quell’orgia di pini, abeti, ontani.
I genitori di Sanna sono morti che lei neanche sapeva leggere. Una bella fortuna, non sapere leggere il giorno del funerale dei tuoi genitori, così non lo capisci che su quei manifesti ci sono i loro nomi, i nomi che pronunci ogni giorno, il tuo stesso cognome.
Ti risparmi qualche lacrima, è chiaro.
I genitori di Betta invece non sono mai nati. Non per lei. Sua madre è andata via mentre lei arrivava, quelle incredibili coincidenze della vita che ti fanno riflettere su quanto sia grande il sacrificio che una madre possa fare per la propria figlia.
Suo padre invece era morto in maniera diversa, diciamo che era morto suo padre ma non la persona che lo indossava, perché a volte, proprio come i nomi, anche le persone sono abiti, che puoi indossarle per anni e gettarle via negli armadi al far della bella stagione.
Si è risposato quando Betta aveva un anno e mezzo. Ma quell’altra, di Betta, non ne voleva sapere nulla. Neanche ne voleva, di figli, figli propri. E così l’aveva portata con sé, qualche anno dopo, un giorno come un altro, una mattina come un’altra, in una piccola chiesetta che Betta non aveva mai visto.
La lasciò lì, raccomandandole di aspettare l’apertura delle porte e accendere due candeline, le aveva anche lasciato le monetine da inserire nella cassetta di legno, così, come a ripagare la vita che le stava portando via. Quella chiesa era chiusa da anni, non sarebbe arrivato nessuno ad aprire, nessuno a darle le candele da accendere, a tirarla su per aiutarla a metter le monetine, nessuno ad abbracciarla e rimboccarle le coperte, a darle la buonanotte.
Poi però qualcuno tornò a riprendersela, dal nulla.
Si chiamava Sanna.
Ma questo nome glielo ha dato lei, comunque. Si chiamava in un altro modo, Sanna. Questo è bene che sia chiaro a tutti.
– È tardi, sono stanca Sanna.
– Ok, è ora.
– Quel prato lì. In fondo, subito oltre la staccionata. Ti piace?
– Mh…
– Ne troviamo un altro se vuoi.
– Siamo quasi arrivati Betta, non preoccuparti.
Intanto la neve cade tranquilla, in quella passeggiata solitaria, fra gli alberi che le sfiorano con i rami senza neanche guardarle. La Sila, tutto intorno, respira piano. C’è chi prova a dire che sia una foresta, un enorme polmone. Grossolano errore, di quelli che la maestra ti chiede di mostrare le mani e te le colora di rosso picchiando con il righello. La Sila è un animale che respira, si muove, osserva, prende e restituisce, è una vita che scorre insieme alle stagioni, scorre insieme ai suoi fiumi, fiumi potenti come arterie, cambia abito come Sanna, si diverte a far la vanitosa provando colori sempre nuovi, sorprende tutti con i suoi seni generosi, i suoi occhi sempre aperti, i suoi tramonti da guardarli e strapparti il cuore per gettarlo in fondo al lago, sperando le arrivi come omaggio alla sua maestosità.
Gli alberi non le notano neanche, ma la Sila le nota eccome, affonda lo sguardo e le vede camminare, fermarsi poi di scatto e buttarsi su quel prato bianco, pancia all’aria, come due amanti che si concedono al proprio letto, come avessero confuso il bianco della neve con quello delle proprie lenzuola.
– Eccoci, ti piace?
– Mi piace.
– Lo sapevo ti sarebbe piaciuto.
– Sanna.
– Dimmi, Betta.
– Senti freddo? Posso abbracciarti, se vuoi. Il mio cappotto è abbastanza largo per entrambe.
– Veramente è mio, il cappotto.
– È nostro.
– Va bene, è nostro. Ma ho freddo, piccola. Tranquilla.
– Ok… Posso abbracciarti lo stesso?
– Certo che puoi.
Però, invece di abbracciarla, si gira su un fianco e le stampa un bacio sulla guancia, trasparente, piccola, bella e innocente come tutte le cose non dette, come i fiocchi di neve in caduta libera.
La cosa divertente è che sono totalmente consapevoli di quel che stanno facendo, sono gli occhi della Sila ad aver capito male. Mica quello è un prato bianco, che lo potresti confondere con un letto.
Quello è un letto.
Quella neve è lenzuola bianche e morbidi cuscini.
– Adesso dormiamo Betta, siamo a casa.
– Prometti di svegliarmi, domani?
– Prometto.
– E se i miei capelli poi sciolgono la neve?
– Non succederà, tesoro.
– Sicura?
– Sicura. Non pensarci più, pensa a dormire. Domani sarà lontano, vedrai.
– … Sanna.
– Dimmi piccola.
– Perché hai scelto questo posto?
– Perché bisogna partire sempre dal luogo in cui si è arrivati, altrimenti si finisce col fare pasticci.
Intanto la neve continua a cadere. Migliaia di fiocchi meravigliosi, di color azzurrolacrime, vengono in punta di piedi. Betta rimane stesa sul suo fianco. Cerca la mano di Sanna e, sicura di averla stretta, proprio quella mano lì e non un’altra cosa, decide di chiudere gli occhi. Qualche ciuffo rosso si sparpaglia su quel lago ghiacciato di addii tanto che, a guardarli bene, sembrano ormeggi di sangue, di vita che se ne va.
– Sei già partita, Sanna?
– Sì, tesoro.
– Anche io. Cioè quasi. Ero tornata giusto a salutarti.
– Ciao, amore mio. Ci vediamo altrove.
– Ciao, Sanna. Ti voglio bene sai?
– Certo che lo so. Buonanotte piccola.
– Sanna.
– Dimmi.
– Non mi lascerai qui anche tu, vero?
Sanna si volta di scatto e la guarda fissa negli occhi, dura come il ghiaccio che ricopre le pozzanghere.
– Io non ti lascerò mai, Betta. Non ti lascerò mai. Hai capito?
– Ho capito.
– Quando ti lascerò, Betta?
– Mai.
– Voglio tu lo dica bene.
– Non mi lascerai mai, Sanna.
– Brava, amore mio. Io non ti lascerò mai. Non si lascia mai chi si ama, ed io ti amo.
– Andiamo, allora.
– Sì, andiamo.
Sanna prende Betta tra le braccia, fa aderire il vestitino al suo vecchio cappotto, le gambe alle gambe, i piedi ai piedi, il suo volto nel fuoco dei capelli di sua sorella, fianco destro lei, fianco destro Betta. Restano così, pronte a partire, ma questa volta veramente.
Intanto la neve continua a cadere, a riempire quell’infinito blunotte che neanche ci fai caso, a quanto possa una cosa così soffice diventare paesaggio, ridisegnare ogni oggetto su cui si siede. Lì accanto la chiesetta dorme indisturbata, chissà se ha riconosciuto Betta, se nel dormiveglia l’ha vista arrivare e stendersi lì accanto, se ricorda la stessa scena già vista in passato, se ha capito che questa volta non resterà da sola ma andranno via insieme.
Ma poco importa, Sanna e Betta ormai sono irraggiungibili, immobili e serene, strette in un abbraccio, in viaggio già da un po’. Dormono come se non ci fosse un domani, consapevoli che domani sarà un eterno oggi. La Sila leva il cappello, allarga il petto e le avvolge, un suo sospiro soffia a scaldarle, il saluto di una montagna che custodisce in grembo due figlie rinnegate da un destino troppo tagliente.
Pian piano il cumulo di fiocchi le ricopre, le cancella.
Sono neve, ormai.
Neve che cade fitta, lacrima che si poggia, si addormenta. Domani sarà già sciolta, sarà altrove.
Un altrove dove reincontrarsi, un altrove dove essere felici.
Un altrove dove sentirsi a casa.
Due bambine sole tra le braccia della stessa madre.