Memoriale Silano: vita da goccia

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di Emauela F. Bossa

Era un freddo inverno. Ricordo solo il gelo, eppure mi porto sulle spalle il peso dei millenni. I miei ricordi risalgono all’ultima glaciazione, dacché ho avuto la fortuna di restare in circolo per moltissimo tempo. Sono il nonno delle gocce d’acqua in questo posto meraviglioso fra le vette dell’Appennino meridionale, in questa terra maledetta e inquieta che già gli avi chiamarono Calabria. Il ciclo dell’acqua mi riporta ogni volta nel medesimo posto, nella Silva Brutia, che vide l’esercito del grande impero romano prelevare pece e legname, in questi centocinquantamila ettari sotto la cui coltre nevosa i popoli preistorici nascosero i loro tesoretti votivi e le loro “fortune”. È un luogo magico, di cui ora la mia memoria racconta. Sono una delle poche gocce primordiali e la mia saggezza narra con parole sicure e sognanti.
Ho visto molte cose. Ero lì quando quei guerrieri del Nord arrivarono impetuosi sostenendo la causa del Papa e caddi, tempo dopo, quale piccolo fiocco di neve sul volto dell’abate Gioacchino quando pose la prima pietra di “Jure vetere”; infine ritornai alla madre terra e il sole mi restituì al cielo, da cui precipitai più volte in un ciclo infinito che risale alla notte dei tempi.
Sono sempre in movimento, eppure non sento ancora il peso degli anni a differenza dei miei amici Giganti di Fallistro. Quasi mi sciolsi in volo prima di posarmi sul ramo del vecchio pino laricio dacché lo vidi, un secolo fa, piccolo e giovane. Era come ritrovare un figlio perduto ormai adulto e vigoroso ma stanco. Anche lui, vedendo che il vento mi riportava sui suoi rami, sorrise commosso e quasi singhiozzò, scuotendosi maestoso e lasciando cadere da un ago la neve precedente, affinché comodo, mi posizionassi lì, nel posto più sicuro.
«Non pensavo fosse possibile rivederti ancora – disse – mia cara goccia. Trova rifugio e riposo tra queste mie fronde, ho da raccontarti una storia. Presto, non è molto il tempo che ci resta». Iniziò a raccontare:
«C’era un tempo in cui noi, fratelli alberi, vivevamo felici in questo bosco, poi venne l’uomo che per ordine del Regno d’Italia tagliò una parte di fusti. Restammo in pochi e gli uomini compresero che fosse importante proteggerci. Oggi quest’area è un’importante riserva naturale. Resistiamo alle intemperie delle stagioni ed ogni volta è bello vedere i bambini nell’atto di abbracciare il nostro grande tronco e la resina è il nostro pianto di commozione. Che questo abbraccio sia per sempre custodito nelle loro menti…».
E mentre lui parlava, caddi dal ramo e il vento mi trasportò con sé. Pensavo alla sorte di quel pino laricio, alla sua quiete, alla sua consolazione e mi venne in mente la storia di altri alberi feriti dai colpi degli uomini, soffocati dai fumi dei barbecue e circondati da ammassi di rifiuti.
Di ciò si discuteva in una grande riunione del bosco nei pressi del lago Ampollino. Io assistevo di nascosto, temendo che un qualche animale, vedendomi, avesse necessità di dissetarsi. C’erano: un gatto selvatico, un tasso, tre volpi, una martora, una donnola, scoiattoli neri, qualche cervo, un nibbio reale e una poiana, due allocchi, un corvo imperiale, qualche picchio rosso, un piccolo fanello, un crociere, e nascosti fra la vegetazione e le felci aquiline stavano due rane verdi, alcune salamandrine dagli occhiali, il terribile cervone e un biacco. Tutti avevano fatto promessa di non predarsi. Mancava ancora qualcuno, il re della Sila, che si faceva attendere. Ed ecco che subito, dal folto del bosco, apparve un vecchio lupo dal pelo ancora fulvo, accompagnato da un gufo reale. Tutti si voltarono a guardarlo. Raramente usciva dai boschi profondi, temeva, infatti, gli uomini che avevano sterminato la sua specie. Si muoveva camminando maestoso e il suo passo era solenne, quasi religioso. Pareva accompagnato da una melodia antica e lontana: il dolce suono della natura silana. Comparve poi, dietro di lui, un branco di giovani lupi, quasi volessero proteggerlo e sostenerlo. Tutti fecero silenzio all’improvviso, quand’ecco che iniziarono a discutere; purtroppo, dato il miscuglio di versi differenti, non compresi ogni cosa ma ricordo con esattezza il discorso finale del vecchio lupo:
«Si dovrebbe forse impedire agli uomini di sostare nella natura? L’ecosistema è regolato da equilibri molto delicati che l’incuria umana ha distrutto e minaccia di distruggere ancora. L’uomo cerca di piegare la natura alle sue esigenze e ne sta pagando un caro prezzo. Inoltre, da secoli, deturpa la flora e spaventa e uccide gli animali. Eppure ci sono uomini che tentano di educare altri uomini al rispetto. Per fortuna, questa nostra oasi verde è ben tutelata, si respira ancora aria sana e pulita e molti uomini si prendono cura degli animali. Io stesso, ferito, fui curato da alcuni volontari e poi rimesso in libertà; loro sapevano che il lupo era cattivo solo nelle favole. Dovrebbero insegnarlo più spesso ai loro cuccioli, bandire la favola del lupo che mangia la nonna e la bambina e ricordare che proprio con uno della nostra specie parlò il Santo di Assisi».
Fu a questo punto che, evaporando, ritornai al cielo. Poi un lungo sonno. Ricaddi sotto forma di pioggia durante la stagione autunnale; dall’alto ammirai gli splendidi colori della Sila Grande e mi parve di vedere quasi un tramonto terragno. Mi capitò una cosa simile a primavera, quando vidi campi ricoperti da un’innumerevole quantità di fiori: le profumate ginestre che circondavano le sponde del lago Arvo, soldanelle e luzule calabre, bellissimi fiori del rabarbaro che adornavano la “Fossiata”, ciclamini, cardi, croco e giunchiglie. Era tutto una danza di odori e un mosaico di splendidi colori. Ero, a quel tempo, una magnifica goccia di rugiada. Dal prato ammiravo le famiglie felici che presso le sponde del lago Arvo pranzavano, gustando quei prodotti che la Sila offre: funghi, pitte ‘mpigliate, carne e salsicce, cicorie silane, patate, caciocavallo e mozzarelle.
Iniziai di nuovo ad evaporare. Salutai il sole, molto più vecchio di me e mi addormentai. Questa volta il sonno durò poco e fui testimone di un raccolto. Ero circondato da donne allegre che, canticchiando, raccoglievano fiori di belladonna, saponaria e lavanda: ne avrebbero fatto profumi e saponi. La donna più anziana teneva sulle gambe una bambina e la cullava, cantandole i canti che i pastori intonavano durante la transumanza. Poi iniziò a raccontare la storia del Principe senza cuore e mi ricordai di averla già sentita o magari vissuta. Anche un picchio nero si voltò ad ascoltare:
«C’era una volta un Principe cattivo e molto malato. Era nato in perfetta salute nella terra in cui il sole non sorgeva quasi mai e solo da adulto aveva contratto un terribile morbo. Aveva combattuto molte guerre e ucciso tante persone. Il suo passaggio significava distruzione. Credeva che quella terribile malattia gli fosse stata inflitta dal suo dio quale punizione per le colpe del padre e delle sue uccisioni, perciò si vendicava facendo strage di esseri umani. Bramava la salute e il potere perché non li possedeva. Un giorno arrivò nelle nostre terre per impadronirsi di tutte le ricchezze della Sila e di quelle rose canine che, a detta di Plinio, curarono un soldato romano afflitto dal suo stesso male. Al suo arrivo l’inverno diventò più rigido e, nonostante ciò, i nostri antenati si nascosero sulle alture. La salute del Principe peggiorò in fretta, infatti, tutto era ricoperto di neve e le rose canine erano introvabili. Era solo e infelice. S’insinuò allora in lui una pietà e una benevolenza verso le creature viventi mai avuta prima e si sciolse il ghiaccio del suo cuore. Chiese perdono per tutto il male che aveva provocato. Ed ecco che il suo dio decise di ricompensarlo del pentimento. Passò di lì una giovane del luogo, Cecita, che stremata dal freddo fu curata dal Principe con le sue ultime forze. La giovane, che portava con sé un sacchettino con rose canine essiccate, tentò di far rinsavire il Principe che, dopo alcuni mesi, morì. Il suo corpo malato non aveva resistito al tempo, ma era guarita la sua anima. In punto di morte il principe disse a Cecita queste parole: “Abbi cura di te stessa e della natura. Non vivere nel dolore della mia morte, serba solo un piccolo ricordo e fa’ che questo rifugio da me costruito diventi un posto meraviglioso da cui tutti possano ammirare la bellezza del paesaggio. Ti porterò sempre nel mio cuore, anche fra i morti”. Cecita pianse per mesi. Il corpo del Principe si trasformò nella rigogliosa vegetazione che ricopre la località chiamata “Cozzo del Principe”, punto dal quale si può vedere il lago in cui Cecita, stremata dal dolore si trasformò. I nostri antenati raccontano che i due da secoli si guardino ancora; quando scende la nebbia e occlude la vista, anche il Cozzo del Principe diventa cupo, perché non può ammirare la sua Cecita».
Il racconto terminò ed io ritornai nell’atmosfera. Ora non so precisamente dove mi trovi. Gli anni m’ingannano. Potrei essere una delle gocce presenti nelle vostre bottiglie d’acqua, o pioggia che cade dal cielo, o acqua in circolo nelle fontane, o una lacrima che lenta scende dal vostro viso quando l’emozione di un luogo o di una storia diventa padrona nelle vostre percezioni e vince la durezza. La mia missione era quella di testimoniare. Ora sta a voi, piccole gocce umane, dare nutrimento a questo luogo magico, preservando il bosco e i suoi abitanti: la Sila è la nostra casa. Scorrete impetuosi come l’acqua che scende giù dai monti e dedicatevi alla natura così come la neve dolcemente ricopre boschi e case.
Tu, chiunque tu sia, lettore, visitatore, turista, abbi cura dei luoghi che ami o hai amato senza aspettarti alcun guadagno o ricchezza materiale. Ora sono qui, io, vecchia goccia, vicino ai tuoi occhi che leggono o nei tuoi pensieri nascenti, come un piccolo monito, come una sicura coscienza.

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