Rosa Viscosa

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di Domenica Luana Floccari

Tutti coloro che la conoscevano, o che solo ne avevano udito le gesta, la chiamavano Rosa Viscosa.
Si racconta che questo nome glielo diedero le suore, il giorno in cui la trovarono davanti alla loro cappella, in mezzo al bosco.
Dormiva in una cesta, Rosa, avvolta da un logoro mantello e dal gelo dell’inverno, ignara della sorte che le sarebbe toccata se le suore, vista la coltre di neve, quel giorno avessero scelto di pregare le lodi in biblioteca piuttosto che in chiesa.
Di lei si diceva molto, ma nessuno aveva notizie certe circa le sue origini, perché non si può conoscere da dove proviene il vento che porta il profumo di primavera o l’aria di tempesta.
Così era Rosa, bella e selvaggia come i fiori montani di cui portava il nome. Seduceva con la sua avvenenza quasi eterea, ma avvelenava a morte coloro che cercavano di coglierla.
Si diceva, per esempio, che amara sorte fosse toccata alla famiglia alla quale le monache la avevano data in affido. Una modesta casa di contadini, che vivevano schiacciati dal peso del lavoro e delle tasse imposte dal governo borbonico, nella città di Acri, già nota per avere dato i natali a un uomo in odore di santità, venuto al mondo con il nome di Lucantonio Falcone, divenuto beato, poco tempo prima della nascita di Rosa, con il nome di Angelo d’Acri.
Come lo stesso territorio possa avere nutrito due anime così diverse è cosa ardua da comprendere. Entrambi, però, lottarono contro gli abusi e le sopraffazioni dei potenti, la corruzione e le ingiustizie sociali. Ciascuno a modo proprio, però.
Si narra che già da piccola Rosa avesse l’abitudine di sovvertire le regole: non le stava bene vedere i figli dei padroni che ingrassavano, mentre lei pativa la fame. Spesso era stata sorpresa a rubare fichi o castagne dalle case delle famiglie più abbienti del paese, per lenire i morsi della fame. Quelle volte che riusciva a scappare correva a nascondersi tra i ruderi del vecchio castello, dove poteva mangiare indisturbata il frutto delle sue ruberie. Quante volte la madre aveva dovuto ripagare, di nascosto, come poteva, coloro che erano stati derubati, perché qualora il padre se ne fosse accorto, la avrebbe massacrata di botte, perché i potenti, si sa, amano i soprusi, ma non se avvengono sulla loro pelle.
E la cosa non migliorò con l’età: Rosa disprezzava sempre più quel mondo che affamava i lavoratori e arricchiva i padroni e non perdeva occasione per dimostrarlo. «Figlia mia – le disse un giorno la madre adottiva in preda alla disperazione – se vuoi essere amata, devi imparare a essere più docile e paziente!».
«Io non sono fatta per l’amore – rispose Rosa – io sono nata per provare dolore».
Quando non era a lavoro la giovane era solita andare per i monti a raccogliere i frutti di stagione. Fu in una sera di queste, mentre Rosa rientrava dal bosco, dopo avere raccolto fiori di malva per sanare la tosse che da giorni tormentava la madre, che incontrò il suo destino.
Per strada un gruppo di signorotti del luogo desiderosi di farle comprendere, a modo loro, quale fosse il giusto posto per una ragazza impertinente, le si parò davanti.
«Buonasera, Rosa, che ci fai tutta sola nel bosco?» disse uno di loro, avvicinandosi a lei.
«Il bosco è il mio rifugio, siete voi fuori posto, e ora levatevi di torno o vi convincerò ad andare via con le buone o con le cattive!» rispose Rosa, impertinente come al solito.
«Sentiamo, cosa vorresti fare?» disse un altro ragazzo, avvicinandosi e afferrandola per il collo.
La ragazza, sentendosi sopraffatta, con un movimento fulmineo, tirò fuori dalla tasca il coltello con il quale aveva reciso i fiori di malva e sferrò un colpo contro il ventre del giovane aggressore. Per il povero malcapitato non ci fu nulla da fare. Il fendente gli perforò lo stomaco e il ragazzo morì sul colpo.
Gli amici, atterriti da quello spettacolo agghiacciante, corsero via sgomenti. Tutti gridavano come pazzi: Rosa aveva ucciso un ragazzo.
La giovane, con le mani ancora sporche di sangue, fu colta da improvviso terrore. Per qualche istante non riuscì a muoversi, poteva solo fissare il suo aggressore esanime.
Fu la voce dei suo compaesani a risvegliarla da questo torpore. Sentì le urla degli uomini del villaggio: la stavano cercando. Gridavano che doveva pagare: uccidere il figlio di un nobile non era cosa che si poteva perdonare. La sua colpa sarebbe ricaduta su tutto il paese. Rosa capì subito che non c’era tempo da perdere, che doveva scappare: se l’avessero trovata l’avrebbero uccisa. Così corse via, più veloce che poteva. Fuggì da quelle voci.
Corse e corse ancora fino a non avere più fiato, fino a che il piede destro, in pieno slancio, non mancò il terreno e Rosa cadde giù per un pendio. In un attimo, senza accorgersene, si trovò coperta dalle fronde di ontani, pioppi e querce che coronano le acque del fiume Mucone.
Rimase lì, Rosa, con l’acqua del fiume che le scorreva sul corpo e addosso l’odore del sangue, il suo sangue stavolta. Non riusciva a muoversi, sentiva solo freddo e voci lontane. Fu così che si addormentò, certa e desiderosa di mai più risvegliarsi.
Fu l’odore dell’infuso di foglie di pioppo che una donna stava passando sulle sue ferite che la risvegliò.
Rosa sentiva dolore alle ossa, ma l’odore del sangue era sparito. Quando si riprese domandò: «Chi siete voi? Cosa ci faccio io qui? Perché non mi avete lasciata morire nel fiume?». «Coraggio ragazzina – rispose la donna – sei viva, questo è quello che conta. Mangia un po’ di mele appena raccolte, le ho cotte per te; dopo che ti sarai ripresa ti racconterò tutto».
Rosa mangiò e bevve la tisana al timo che la donna le porgeva. Poi si addormentò. Si risvegliò a sera, quando la luce del fuoco illuminava le bocche di piccole grotte, che quella gente adoperava come rifugio.
Sedutasi accanto al fuoco, Rosa ascoltò ciò che la donna aveva da dirle. «Mi chiamo Marietta Cece, il mio compagno è stato ucciso dal governo borbonico e il suo cadavere ancora pende dalla forca sulla piazza di Corigliano».
Dopo aver bevuto anch’ella un sorso di timo, Marietta riprese «Quelli che vedi sono tutti briganti. Un tempo eravamo operai, artigiani, molti erano contadini. Siamo giunti qui da tutte le parti della Calabria, qualcuno arriva anche dalla Basilicata, come Carmine, che vedi lì». La donna indicò un uomo barbuto, che mangiava un pezzo di agnello appena arrostito sulla brace. «Siamo qui perché siamo insorti contro la prepotenza dell’oppressore. I primi a ribellarsi sono stati quelli di Pedace, che hanno lottato contro i francesi nel bosco di Malaparte. Il nemico era superiore per numero e per mezzi e, dopo una sanguinosa lotta corpo a corpo moltissimi di loro sono stati uccisi. Noi combattiamo la loro battaglia». «Oggi governano i Borboni – aggiunse un ragazzo alla destra di Rosa – per noi cambia solo il nome, ma il volto è lo stesso e noi siamo stanchi di essere mal pagati, piegati dalla fatica, maltrattati, rovinati dall’usura. Combattiamo per le nostre terre. Combattiamo per la libertà. Non credere a coloro che ti dicono che i briganti sono banditi: la causa del brigante è la causa del popolo».
Rosa ascoltava e il suo cuore ardeva: finalmente aveva trovato il suo posto, un luogo dove nessuno le avrebbe più detto di subire o patire la fame. Adesso avrebbe potuto combattere la sua battaglia.
Per qualche strano motivo, con il suo arrivo la banda dei briganti aumentò di numero e compì una serie di eclatanti delitti, sempre allo scopo di ottenere denaro per portare avanti la propria battaglia di liberazione. Dovunque essi passavano si contavano a decine gli omicidi, i sequestri di persona, le estorsioni, i ricatti, i maltrattamenti e le percosse ai prigionieri, gli incendi e le stragi di mandrie, sempre a carico delle famiglie filo borboniche particolarmente facoltose.
Le loro scorrerie durarono per ben quattro anni, durante i quali inutilmente le milizie borboniche tentarono di catturarli.
Ma l’azione più ardita fu compiuta proprio ad Acri con la cattura di quattro notabili, del vescovo di Tropea e di due sacerdoti. Tale spettacolare sequestro ebbe risonanza in tutta Italia. In seguito a questo evento, il re Ferdinando I attuò una campagna repressiva nei confronti delle bande di briganti emanando un decreto che ne prevedeva lo sterminio.
I boschi, ormai, erano presidiati e i briganti facevano fatica a trovare luoghi in cui nascondersi. Una sera, al tramonto, la banda stava approfittando dell’oscurità per spostarsi verso Montenero, dove sperava di trovare un rifugio abbastanza impervio, ma mentre percorrevano la macchia qualcosa bloccò i loro programmi.
«Fate silenzio, sento qualcuno provenire dalla valle!» disse Rosa ai suoi compagni. Ciascuno si nascose come poteva. Rosa si infilò nel ventre di una grossa quercia e lo stesso fecero altri, sperando che i soldati non li vedessero. Purtroppo, però, il capo delle guardie sapeva che quelle querce erano alquanto incavate.
Appena si avvicinò scorse dentro una sequoia due briganti. Il capitano ne afferrò uno per il collo e lo gettò a terra. Gli altri briganti, ormai scoperti, uscirono dai loro nascondigli e ingaggiarono un feroce corpo a corpo contro i soldati. Persino Rosa, che non aveva mai disdegnato la lotta, iniziò a colpire. Il capitano diede ordine di sparare. Rosa venne ferita, ma non a morte. Vistasi colpita si diede alla fuga. Purtroppo, poco più in là, altri soldati, la freddarono colpendola alle spalle. Solo quando furono certi che fosse morta, i militari si avvicinarono a lei e, esaminatone il corpo, compresero che era una donna.
I calabresi ancora oggi la ricordano con il volto solcato da un sorriso beffardo, la giubba da uomo, con in capo un cappello alla calabrese, con la pistola alla cintura e la doppietta tra le mani.
I compagni la lasciarono alle porte del convento in cui era nata. La vita di Rosa finì così, lì, dove era iniziata e la sua anima poté trovare la pace tanto bramata nel giardino del convento, dove le rose vischiose, ancora oggi, fanno da corona al suo corpo, che troppo in fretta incontrò la morte.

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