Il sospiro dei giganti

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di Stefano Lombardo

Ombre maestose, che traggono forza da una terra orgogliosa e selvaggia, sfidano il cielo e la sua irraggiungibilità mostrandosi come naturali sopraelevate che conducono alle stelle. Tale spettacolo si ergeva dinanzi agli occhi stanchi ed esperti di un, seppur giovane, uomo ramingo quando un boato riecheggiò dalle viscere del tempo a testimonianza di una secolare presenza: era un’ostentazione della forza selvaggia della natura che riuscì persino a stupire il viaggiatore avvezzo ad ogni paesaggio, ma non alla sontuosità dei “giganti della selva”, pini a cui il vento d’alta quota dava la parola. Lo stupore si tramutò in convinzione e l’uomo errante, spinto dalla forza della disperazione, vide nella inospitalità del fitto bosco e nel preludio dell’autunno la più accogliente e protettiva delle dimore. Così costruì un giaciglio di fortuna dentro un’insenatura proteggendosi le spalle con una grande roccia sporgente dal terreno, pilastro naturale su cui edificare la propria salvezza. Coprì il tetto della struttura con rami e foglie e si assicurò il caldo abbraccio di un fuoco confidando nella copertura di quegli enormi alberi e della nebbia che colmava i brevi spazi tra loro. Riuscì a sopravvivere per giorni ma, insieme a Settembre, si allontanava la razionale speranza di continuare a sfidare la montagna e la sua gelosa solitudine. Il freddo divenne insostenibile senza mezzi necessari e fu costretto a riprendere il cammino lungo la “strada degli eserciti”.
Gli venne in mente il cammino che lo portò sino alle impervie vette della sontuosa Sila seguendo le orme della millenaria strada romana che univa i golfi di Sibari e di Lamezia tagliando per le montagne. Rammentò quella moltitudine di uomini, senza volto per la furtività dei movimenti, che ripiegava sull’altopiano in fuga dalla leva militare imposta da uno Stato che non avevano mai conosciuto. La Sila della metà del XIX secolo pullulava di vita, non solo silvestre, ma anche umana e, in quanto tale, comprensibile solo sottolineando la durezza del lavoro di contadini e mandriani in cerca di terre demaniali da sfruttare come valido rifugio dall’arroganza baronale. Il ramingo, anche lui fuggiva dall’arroganza e dall’ingiustizia di quel tempo, oltre che dal proprio passato.
Raggiunse una capanna per poi essere condotto da un carbonaio al borgo più vicino ed essere presentato al sacerdote del luogo, suo amico fidato dopo che venne ospitato nella piccola ma vitale capanna e guidato verso la salvezza senza che gli venisse neppure chiesta l’assurda ragione per cui un uomo potesse vagare nel cuore della Sila senza meta e senza speranza. Forse i suoi occhi parlavano da sé o forse, semplicemente, quell’uomo errante in cerca di una nuova vita apparteneva alla quotidianità postunitaria e il lavoratore ed il prete non videro altro che un uomo da aiutare. Ringraziandoli, assicurò all’anziano parroco il suo impegno in qualunque cosa fosse stata a lui necessaria e chiese che giorno fosse: era il 27 Settembre 1861.
Entrato nel borgo, tra le promesse di accoglienza del sacerdote, il suo sguardo sospetto fu costretto a mutarsi in stupore nel costatare la riservata semplicità di quella gente ed il loro rispetto per il silenzio di un forestiero che non tediavano con la ricerca della sua identità né temevamo per l’aspetto da eterno viaggiatore, poiché avvezza ad accogliere i giovani della loro terra costretti a preferire la continua ricerca di un riparo sull’aspra montagna ad una branda sicura di una guarnigione di bersaglieri, pedine costrette dalla violenza a perpetrare altra violenza, in uno Stato che da essa era finalmente sorto. Lo avevano accolto senza esitazioni, con una curiosità mai manifesta e lui non perse tempo per mantenere la parola data riparando quello stesso giorno il tetto cadente della casupola del parroco e nei giorni seguenti quello di un rustico vicino non più idoneo a superare la sfida dell’inverno del luogo. I proprietari erano una famiglia solita al lavoro, ma non ad un lavoro di tradizione maschile, poiché composta di sole donne. Prese maggiormente a cuore quell’incarico intuendo che tale conformazione non era frutto di una scelta bensì della triste realtà di quel tempo. Impiegò tanto tempo a riconsolidare la copertura e l’intero edificio dedicandosi esclusivamente al lavoro e sottraendosi a qualsiasi contatto sociale; le sue poche parole erano espressione di modi gentili e di una colta educazione che aumentavano il mistero di quell’uomo dall’identità enigmatica e corrispondente ad una generica definizione toponimica e non comprovata: era semplicemente noto come “u Lombardo”.
Inutile fu il tentativo di non alterare la sua vita pensando esclusivamente a sopravvivere poiché di colpo un solo viso occupò interamente i suoi pensieri. Nel giorno settimanale dedicato a Nostro Signore la sua attenzione era rivolta all’omelia di quel parroco combattivo che denunciava i soprusi congiunti di chi era potente sotto l’effige di un re o per volontà personale, quando all’improvviso liberò il cuore dal guscio del rancore, disciolto da quella visione: occhi sinceri e pieni di sogni brillavano di un rosso riflesso alla luce del sole, lineamenti gentili ed eleganti incorniciavano labbra di rara perfezione e forme sinuose della candida pelle erano costellate sugli alti zigomi da lentiggini invisibili ai più. Con vesti curate e capelli raccolti stentò a riconoscere quella incantevole mora che, spazzolando i suoi lunghi e sinuosi capelli ricci, rapiva ogni volta il suo sguardo e lo distoglieva per qualche istante dal lavoro sul tetto. Il destino fu contrario alla sua scelta di non coinvolgerla e di proteggerla dalla propria vita e, dopo varie occasioni, non poté che arrendersi all’amore: lo aveva curato da una lieve ferita durante il lavoro e ringraziato al termine di esso con dolci di sua creazione. Presto sostituì le cruente visioni sul suo fato con la certezza della tangibile felicità del presente. Era ormai noto come falegname e carpentiere ma trascorreva il tempo ad attendere la domenica per poterla rincontrare. Accorgendosi che non si vive in attesa di un giorno, decise di corteggiarla ufficialmente e, con la sua approvazione, di dedicarsi a costruire la più importante delle opere: una vita insieme a lei. Ma fu proprio il giorno stabilito per le nozze a rammentargli che la sorte lo aveva seguito lungo quella strada per le montagne. Il giorno di santa Lucia i due coronarono la loro promessa d’amore. La sera, al calar del sole e dei festeggiamenti, il vento incanalato nei rami di quei sontuosi pini venne fatto tacere dal rumore assordante di decine di zoccoli sul terreno e un plotone di bersaglieri trovò nel villaggio il perfetto stanziamento invernale. Stavano inseguendo da mesi una banda di briganti che, per la sua grandezza ed organizzazione, aveva spinto un ufficiale a lui noto ed insaziabile di fama ad inseguirli inoltrandosi nel cuore della montagna e dell’inverno. Fu proprio l’inaspettata visione di quest’ultimo a costringere il ramingo da poco accasato a rivelare il proprio passato.
Il suo vero nome era Jacopo e, condotti gli studi presso il Real Collegio della Nunziatella, prestò fedelmente i propri servigi come giovane ufficiale dell’esercito borbonico fino all’ultimo istante di vita del Regno delle Due Sicilie seguendo insieme a pochi altri il re Francesco II nella Piazzaforte di Gaeta, nell’ultimo disperato tentativo di difesa. Qui conobbe il vero orrore della guerra dopo mesi di assedio in cui le cannonate scandivano con un tragico ritmo le giornate all’insegna della precarietà della vita, oltre che della fame e del freddo. In seguito alla capitolazione del re borbonico del 13 Febbraio1861, concessigli due mesi per decidere di mantenere il proprio rango presso il nuovo Regio Esercito Italiano, si convinse che il sangue versato per l’unità del nuovo Stato fosse ormai sufficiente e che la violenza della nascita stava per lasciare il posto alla prosperità della crescita. Le speranze di un ragazzo fiducioso nel futuro furono annientate dalla dura realtà fatta di morti e repressioni, promesse mancate e disordini popolari e, all’interno di questo quadro, dall’ordine di uno spietato generale ansioso di vendicare sommosse sanguinarie radendo al suolo interi villaggi di civili, senza risparmiare eventuali vittime collaterali oltre l’intera popolazione maschile. Rifiutando l’onere dell’omicida, disertò costringendosi alla fuga ripiegando verso le montagne del Sud mentre chi, come il suo storico amico e compagno d’armi, seppelliva l’umanità sotto un’apparente gloria da ufficiale del Regno. Colui che era un tempo un fraterno commilitone, si presentava ora dinanzi a tutti come un cacciatore di banditi, renitenti e disertori, ma ai suoi occhi era solo un assassino desideroso di finire il proprio lavoro.
Fu così che la vita lo costrinse a salutare con un ultimo bacio quel dono che per breve tempo gli fece assaporare. Tra tutti gli scherzi del destino questo fu il più meschino dal momento che a nulla sarebbero serviti la falsa identità e la barba incolta dinanzi agli occhi di chi lo conosceva da anni. In difesa di quel dono non gli restò che cercare tra la neve il suo riparo ai piedi dei giganti e, trovato il roccioso giaciglio, sdraiarsi sul terreno contento di aver protetto il suo bene più grande.
La storia si conclude con un’unica certezza: sin dal mattino seguente, la giovane sposa si recò ogni giorno alla ricerca del marito e neppure la nascita del loro bimbo la fermò mai dal porre un fiore fresco su quella roccia. Il corpo del ramingo non venne mai ritrovato e c’è chi narra che neppure il cupo freddo lo fermò dal diventare un brigante alla ricerca di giustizia.
Oggi, sopra la sua lapide sorge una chiesetta in onore di un santo martire, quasi a ricordare il suo destino, là dove la natura tempra il carattere e le vite degli uomini che osano sfidarla, là dove continua a riecheggiare il sospiro dei giganti.

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