di Vincenzo Abate
Era stata una bella cerimonia, il sacerdote aveva svolto tutto sommato in maniera dignitosa il suo lavoro. Giovanna non era mai stata una fervente fedele, eppure quella tragica circostanza aveva fatto nascere in lei un bisogno di credere in qualcosa che travalicava ogni possibile freno razionale. Quante volte si era sorpresa a pregare per la salvezza di suo padre, quante volte rimuginando tra sé e sé faceva riferimento direttamente a Dio… Sì, ma quale Dio? L’Onnipotente vendicatore sanguinario dell’Antico Testamento o quello misericordioso descritto dalle parole di Gesù? Poco importava, la cosa fondamentale era che quella divinità salvasse il suo amato genitore. Una Fede forse non troppo forte tanto da giungere così in alto. O forse erano i suoi dubbi che non le permettevano di comunicare col Padre Eterno, o forse a Dio non interessava più di tanto un anziano con una malattia incurabile che lo consuma giorno dopo giorno. A discapito delle tante preghiere, il suo adorato padre era morto, devastato da un cancro che non aveva lasciato nessuna speranza sin dall’inizio. Quando ogni possibile speranza razionale cessa di avere un minimo di fondamento, anche la mente più scettica tende ad attaccarsi a ciò che può travalicare l’esperienza materiale, quello che gli psicologi definiscono pensiero magico. Ma ormai perché pensarci? Avrebbe continuato in un altro momento la sua eterna discussione interiore con Dio o chi per lui. Piazza Loreto era strapiena di gente, tutti a portare l’estremo saluto a suo padre, uomo che aveva lasciato un ottimo ricordo in tante persone che avevano avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo in vari momenti della sua vita. Inutile soffermarsi su quanti di questi individui fossero presenti per pura opera di presenza, un atteggiamento ipocrita che comunque è normale in tali circostanza. Dopotutto, pensò Giovanna, quante volte l’aveva fatto anche lei? Quante volte aveva presenziato a eventi del genere pur non sentendosi minimamente toccata? Si trattava di una forma di pura cortesia, o di una profonda ipocrisia celata nel cuore di ogni essere umano. Ma ormai non contava più. Il dolore per la perdita era a tratti insopportabile, Giovanna non sognava altro che di liberarsene pur sapendo, nel profondo del suo cuore, che tale ferita non si sarebbe mai rimarginata. Passò diversi giorni da sola, chiusa in casa, a stretto contatto con il suo dolore e con la sua tristezza. Dopo una settimana decise però che era giunto il momento di tentare di smuoversi, se non altro per riprendere la sua vita di tutti i giorni, visto che sarebbe dovuta rientrare presto in ufficio. Il mondo del lavoro non accetta che il dolore di un essere umano possa avere i suoi tempi di elaborazione, il mostro del Capitalismo deve potersi nutrirsi delle energie di tutti, pedine necessarie per un ingranaggio che spoglia l’essere umano di ogni sentimento. Quando si sentiva triste, Giovanna aveva un’abitudine: arrivare con la sua macchina in Sila, lo splendido polmone verde della Calabria, e avviarsi a piedi tra gli alberi seguendo qualche sentiero, un modo per respirare aria pura e ricevere così un po’ di pace. E per abbandonarsi ai ricordi. Quante volte aveva fatto queste passeggiate con suo padre, momenti magici che non avrebbe mai dimenticato e da cui traeva una forza irrefrenabile che le dava la carica per affrontare al meglio la vita. L’avrebbe fatto anche stavolta, da sola, sperando che la Natura le potesse restituire un minimo di pace interiore, per sopportare quel dolore lancinante che la stava distruggendo. Non ci mise molto per arrivare, parcheggiò l’auto senza preoccuparsi troppo di ricordare se aveva chiuso le sicure e si avviò per il sentiero che tante volte aveva percorso e che ormai conosceva bene. Chiuse il suo giubbetto e incamminò nel bosco, seguendo il sentiero e cercando di trarre linfa vitale dal pacifico silenzio e dall’aria pulita e fresca che entrava nei suoi polmoni, così diversa dalla cupa e stantia atmosfera cittadina, fatta di smog e di ipocrisia di persone che si presentavano ai funerali senza avere il minimo interesse per il defunto. Giovanna continuava a camminare, dando libero sfogo al suo dolore: urlò, pianse a dirotto, imprecò contro il Cielo e contro il Nulla assoluto che gli aveva portato via il suo amato padre. L’universo intero era ora suo nemico, e per molto tempo nulla avrebbe potuto darle un minimo di sollievo. Nulla, se non forse la Natura stessa, il polmone verde in cui lei stava camminando come un piccolo batterio che, col solo fatto di essere una creatura soggetta all’ipocrisia come gli sciacalli che erano andati al funerale di suo padre, metteva rischio l’intero ecosistema… Ecco come si percepiva adesso Giovanna, come un essere inutile che metteva in pericolo l’armonia della Natura col sol fatto di respirare. Si era immersa così tanto nei suoi pensieri e nelle sue imprecazioni che non si era resa conto di essersi allontanata dal percorso che conosceva bene. Aveva smarrito il sentiero, e non aveva idea di dove potesse trovarsi dal punto in cui si trovava adesso. Una sensazione di panico iniziò a insinuarsi in ogni fibra del suo organismo. Non doveva perdere la calma, il suo odio e il forte rancore le avevano fatto smarrire la strada per poter tornare indietro, e ora si trovava dispersa nel bosco. Inutile fare affidamento al cellulare, privo di ogni minimo segnale; Giovanna sapeva bene che doveva cercare di ritrovare la strada per ritornare all’auto prima che facesse buio, altrimenti il freddo l’avrebbe messa in serio pericolo. Si mise in cammino, maledicendo la sua rabbia e il destino che aveva fatto ammalare suo padre e che glielo aveva portato via. Destino, caso, Dio… Chiunque avesse stabilito la fine dell’amato genitore si stava divertendo a mettere a rischio anche la sua vita. Continuò a camminare per molti minuti, forse anche per qualche ora, ma le sembrava di girare sempre intorno allo stesso punto. La passeggiata sul viale dei ricordi si era trasformata in un vero e proprio incubo a occhi aperti, una situazione allarmante da cui non riusciva a trovare una via d’uscita. Un minimo di sollievo arrivò quando Giovanna trovò sul proprio cammino un vecchio binario, una linea ferroviaria di cui non aveva mai sentito parlare. Dopotutto, non aveva la minima idea se ci fossero treni che attraversavano le montagne della Sila da quelle parti… ma cosa importa? Pensò che l’unica opzione che aveva in quel momento era seguire quei binari, prima o poi l’avrebbero portata da qualche parte, verso una vecchia stazione vicina a qualche rifugio o magari a un passaggio a livello dove poteva passare qualche automobile. Con il morale un po’ risollevato, Giovanna iniziò a seguire il binario, con la segreta speranza che tutto questo potesse servire veramente a qualcosa. Era partita da Cosenza nelle prime ore del pomeriggio, non sapeva da quanto tempo si trovava nel bosco ma aveva la consapevolezza che presto sarebbe stato buio. Lo smartphone di ultima generazione, pagato una cifra esorbitante, si era spento. Maledisse il suo vizio di non attaccare il telefono al carica batterie ogni sera. Senza riferimenti, senza possibilità di mettersi in contatto con chiunque, Giovanna continuò a seguire quel binario divenuto ormai unico elemento che le dava l’idea di poter uscire da quell’immenso bosco in cui si era persa. Quel binario era diventato il suo intero mondo, tutto il suo “tempo” come livello concettuale. Ogni sua minima attenzione era rivolta a quella ferraglia lercia, unica traccia di elemento umano in un paesaggio che era rimasto puro nella sua più profonda essenza. Cominciò a sentire dei rumori. Il fruscio dei cespugli, qualcosa si muoveva celato dietro il fogliame. Gli prese il panico, pensò immediatamente a un branco di lupi affamati, immaginò le belve con gli occhi rossi e la bava alla bocca saltarle addosso che le squarciavano la gola… una fantasia raccapricciante in cui i lupi venivano visti come dei demoni affamati. Ciò che vide, però, l’inquietò ancor di più che se avesse visto un branco di lupi.
Non sapeva come potesse essere possibile, iniziò a dubitare della sua mente: dai cespugli venne fuori una pattuglia di SS, un gruppo di 7-8 soldati nazisti con i mitra nelle mani e con l’atteggiamento guardingo di chi è a caccia. Parlavano tedesco, con quell’accento un po’ assurdo che parlano nei film. Ma cosa stava succedendo? I soldati sembravano non accorgersi minimamente di Giovanna, quasi come se fosse invisibile ai loro occhi. Dal loro atteggiamento, Giovanna immaginò che i tedeschi fossero alla ricerca di alcuni Partigiani che si nascondevano in quella zona. Non c’erano dubbi sul fatto che i tedeschi avrebbero fucilato immediatamente le loro prede una volta scovate, proprio come i lupi che attaccano in branco per fare a pezzi la preda. La preda non era Giovanna, a lei toccava l’ingrato compito di assistere alla mattanza. Era una follia, un’assurda e terrificante follia, era chiaro che la sua mente aveva mollato in maniera definitiva, aveva perso la ragione e ora quello che aveva dinnanzi agli occhi non era altro che lo specchio dei suoi demoni interiori e del suo dolore. Ma poteva dirlo con certezza? O forse quel binario che continuava a seguire l’aveva, chissà come, accompagnata attraverso il tempo catapultandola in un’epoca mostruosa? Se fino a quel momento il panico l’aveva fatta da padrona, ora era il momento di abbandonarsi al più cieco terrore. Uno dei soldati nazisti si accorse di lei mentre gli altri del gruppo si incamminavano all’interno del bosco, sempre alla ricerca dei ribelli nascosti. Probabilmente avevano sentito un rumore o trovato una traccia da seguire. Il soldato che era rimasto indietro la guardava ora dritta negli occhi, il mitra ben saldo nelle mani. La divisa le incuteva un timore profondo, a memoria delle atrocità commesse dal Terzo Reich che lei aveva studiato bene ai tempi del Liceo, ma era niente a confronto dello sguardo del soldato tedesco che le urlava addosso una valanga di parole di cui lei non riusciva a comprendere nulla, se non il tono impositivo e minaccioso. Gli occhi del soldato nazista erano terrificanti, completamente privi di ogni espressione, totalmente neri: gli occhi del Diavolo! Giovanna aveva talmente paura da non riuscire a proferir parola, non che sarebbe stato chissà quanto utile ma almeno avrebbe potuto spiegare al soldato che lei era una semplice donna che si era persa nel bosco e che non aveva niente a che fare con i ribelli (inutile soffermarsi sul fatto che era nata circa 40 anni dopo la caduta del Reich, ma in questo delirio nulla aveva più senso). D’un tratto, il soldato iniziò a parlare italiano in maniera abbastanza chiara, se non fosse stato per quel fortissimo accento teutonico che dava alla sua voce un tono di minaccia, proprio come il ringhio di un lupo che sta per avventarsi sulla preda. Il nazista le urlò contro la dolorosa verità: “Hai abbandonato tuo padre nel momento del bisogno e ora piangi la sua morte. Ipocrita! Se non avessi perso tutto quel tempo a pensare solo a te stessa, se solo ti fossi impegnata un di più a dare sostegno a tuo padre, se gli avessi creduto sin dall’inizio quando cominciò a lamentarsi per gli atroci dolori… tu non gli hai mai dato ascolto, e ora tuo padre è morto e brucia all’inferno! E anche tu brucerai!” Giovanna urlò con tutto il fiato che aveva in gola, inginocchiandosi e chiudendo gli occhi per scacciare quello spaventoso incubo. Quando riaprì gli occhi, si trovava a pochi metri dalla sua auto che si scorgeva ben visibile attraverso i rami degli alberi. Del binario che l’aveva accompagnata in quell’incredibile avventura nessuna traccia. Era esistito veramente, si era davvero persa nei boschi, aveva sul serio incrociato una pattuglia di nazisti impegnata nella cattura di alcuni Partigiani? Domande assurde che rimanevano sospese nel tempo, senza un briciolo di risposta che potesse rassicurarla sul significato stesso di quella tremenda esperienza. Le parole urlate dal soldato nazista le rimbombavano ancora nella mente, e Giovanna iniziò a formulare un’ipotesi sulla sua assurda avventura. Era vero quello che diceva il nazista, suo padre era morto perché erano stati rimandati troppe volte i controlli medici, troppe volte aveva bollato come “inutili lamentele” gli urli di dolore del genitore e le sue implorazioni di portarlo da un dottore. Quando si era decisa la malattia era già arrivata a uno stadio avanzato… non c’era più nulla da fare. Sostanzialmente, era stata lei a uccidere suo padre, e lo aveva fatto non credendolo, non dandogli retta, trattandolo con sufficienza. Il dolore e il rimorso le bruciavano nello stomaco e ne deturpavano la mente stanca. Giovanna si rese conto di essere la prima responsabile della fine del genitore, e che la sua mente aveva sviluppato un percorso definito da un vecchio binario per giungere alla dolorosa consapevolezza e alla truce verità, una verità che aveva gli occhi neri di un soldato tedesco che le urlava contro i suoi peccati.