di Simone Salvatore Pagliaro
«Questa terra, in fondo, è inquieta come il tuo cuore, Khadim. Le abbondanti nevicate come quella di questi giorni possono solo ovattare l’inquietudine, che tornerà, puntuale, coi fiori di maggio, quando ti sembrerà più vicina la tua terra arroventata dal sole».
Nell’apparente immobilità del giorno, seduta accanto alla vecchia stufa a legna, arrugginita dal tempo, avevo letto a Khadim un po’ di Tucidide. Stavo studiando, in quei giorni, le pagine in cui lo storico greco parla della fatale spedizione ateniese in Sicilia e ne individua le cause. Avevo cercato di spiegargli la necessità della storia, avevamo discusso di cause remote e cause immediate.
«Il cibo, la fame, la guerra» aveva concluso nel suo italiano sempre migliore «sono la causa immediata che mi ha portato qui, dopo aver attraversato il mare. Gli interessi dei potenti della terra, che sfruttano i piccoli e i deboli, sono la causa remota, quella vera».
Khadim era un ragazzo intelligente, tutt’occhi, nero come la notte che sembrava portarsi dentro. L’avevo conosciuto d’estate, a ferragosto, quando coi miei ero andata in montagna per la solita scorpacciata sotto i pini. I suoi cani avevano senz’altro sentito l’odore dell’arrosto e si erano avvicinati, dirottando anche le pecore. Khadim faceva il pastore. Era giunto sui monti della Sila per vie traverse: partito dal Senegal, dopo aver attraversato il mare, aveva vissuto per un po’ in un campo profughi del locrese; poi era stato assoldato da un potente signorotto, proprietario di vasti appezzamenti di terreno. Aveva diciassette anni, proprio come me. Era in Italia da cinque. Quel giorno l’avevo seguito fino in cima, dove passava la notte, arroccato in una casupola di pietre e lamiere. Mi aveva raccontato in breve la sua storia. Era orfano di entrambi i genitori, morti durante una guerriglia scoppiata nel suo villaggio. Lui e la sua sorellina, Amina, di tre anni più piccola, si erano messi in salvo ed erano riusciti a raggiungere il Nord: da lì, la traversata del mare. Notai subito che, nel parlare del mare, il suo volto s’abbuiava all’improvviso.
«Sono Anna» gli dissi, un po’ impacciata. «Ho la tua stessa età. Frequento il liceo classico del paese e sogno di diventare medico».
Avrei voluto chiedergli quale fosse il suo sogno per il futuro, ma non osai. Rimasi a guardare i suoi occhi neri, indorati dalla luce del tramonto. Fu un ferragosto speciale: imparai l’eloquenza del silenzio, il potere dello sguardo. Khadim non mi aveva detto molto, ma io già sentivo di conoscerlo.
Quando il sole, nelle sere d’agosto, carezza le sinuosità della Sila, anche a me, come al Montale de I limoni, piove in petto una dolcezza inquieta. Non m’ispirano il riposo la notte stellata, gl’odorosi pini: sarà che, come mi diceva la nonna, quando si è giovani il cuore non trova requie neppure la notte, ma sempre s’aggirano in lui i pensieri, i volti, la vita…
Tornai da Khadim di nascosto, con la scusa di una passeggiata in montagna, una domenica di settembre. Portai con me due pezzi di crostata, fatta dalla mamma. Era vicina l’ora del tramonto. Giunta in cima, vicino la sua casupola, scorsi Khadim seduto su un grande sasso, mentre batteva il bastone a terra ritmicamente e intonava un motivo africano. Cantava benissimo, cantava forte, con gli occhi rivolti all’orizzonte. Appena mi vide, s’illuminò. Mi corse incontro, col suo inconfondibile odore di pecora. Mangiammo la crostata. Gli chiesi che cosa stesse cantando. Avevo intuito bene: era una melodia africana. Khadim la indirizzava ogni sera a quello spicchio di mare che riusciva a scorgere dall’altura nelle giornate più limpide.
«Perché proprio al mare?» gli domandai.
Mi spiegò che, lungo la traversata che l’aveva portato sulla costa calabrese, aveva smarrito la sorella. Nel buio della notte, l’aveva persa di vista, in quel barcone affollato come un formicaio. Al mattino, Amina non c’era più e nessuno era stato in grado di dargli sue notizie. Qualcuno gli aveva detto che le ragazzine più belle, durante la notte, le prendevano gli scafisti per venderle come schiave e farle prostituire. Amina era bellissima, ma aveva solo nove anni. Rimasi sconcertata. Mi venne in mente Melibeo, il pastore virgiliano che aveva trasformato il suo lamento in canto bucolico. Khadim non aveva, però, un Titiro a cui rivolgersi.
– Ecco il suo sogno: – mi dissi – un canto di risposta che giunga dal mare –.
La scuola era iniziata. Il professore di greco ci aveva parlato della nascita della storiografia. Ero stata folgorata dalla sua lezione: aveva portato tutta la classe a riflettere sul valore della ricerca, sull’importanza delle fonti. Avevo scoperto soprattutto che Erodoto, primo grande storiografo della letteratura occidentale, aveva parlato di autopsia per il suo metodo storico: pensai che la storia dovesse avere a che fare con la medicina. Il professore mi aveva letto nel pensiero.
«Anche un buon medico,» disse «per essere tale, dovrebbe conoscere la storia. La storia, come la poesia, come la letteratura, ci fa capire chi siamo, da dove veniamo. Ci insegna a pensare con la nostra testa, ci fa acquisire uno sguardo critico, ci consegna gli strumenti per leggere la realtà, interpretarla, farla nostra. Ci insegna ad essere uomini e donne in continua ricerca, uomini e donne migliori, che non accettano supinamente ciò che gli viene propinato dalla pubblicità, dalla televisione, dalla rete, ma che si battono con consapevolezza e determinazione per costruire un mondo più umano».
Trascorsi con Khadim molti pomeriggi d’autunno. Le pecore erano ormai scese verso il mare. Lui, però, viveva ancora in quella casupola e allevava i maiali del signorotto. E, come sempre, cantava. Oltre alle torte della mamma, portavo con me sempre un libro e gl’insegnai a leggere. Io leggevo le pagine più complesse e lasciavo per lui i periodi più semplici. Leggemmo insieme Le Supplici di Eschilo: era paradossale ascoltarlo nella parte di Pelasgo, che, dopo vari tentennamenti, si decideva per l’ospitalità delle Danaidi – lui, Khadim, che abitava in terra straniera e tante volte aveva avvertito il rifiuto, tagliente come la lama affilata del coltello che portava sempre in tasca.
Leggemmo le fonti greche e si dischiusero all’improvviso agli occhi della mente la scuola pitagorica di Kroton, la ricchezza e la bellezza del tempio di Era Lacinia; leggemmo alcuni passi di Strabone sulla Sila: scoprimmo insieme che la legna scoppiettante nella stufa era la stessa che, molti secoli prima, la manodopera greca e romana aveva fatto diventare navi da guerra. Khadim s’accese soprattutto quando, in Diodoro Siculo, lesse di Annibale, un africano come lui, che, mentre combatteva la potente Siracusa, reclutava mercenari nella terra dei Brettii, quella che anche lui ora abitava.
I colori dell’autunno vestivano i monti della Sila: visioni superbe al sole del meriggio. La strada che portava da Khadim sembrava non riuscire a contenerne l’esplosione. Anche nel mio cuore palpitava un autunno colorato, che, a sera, lasciava posto agl’occhi neri di Khadim.
Poi giunse l’inverno. Una violenta scossa di terremoto, in piena notte, mentre la neve cadeva silenziosa, mi buttò giù dal letto. Khadim fu il mio primo pensiero. Il giorno dopo non andai a scuola, ma, in fretta, scesa dal treno che portava sul monte, salii la stradina fino alla casupola. Trovai Khadim impaurito. Avevo con me del tè caldo e, soprattutto, Tucidide. Leggemmo insieme, accanto alla stufa arrugginita.
Mi strinse forte a sé. Non aveva perso quel suo odore di pecora. «Sì,» mi disse «questa terra è inquieta come il mio cuore. Ma ci sei tu, Anna. E sarò meno inquieto quando coglierò per te i fiori di maggio».