di Marzia Matalone
Ho trascorso tutta la mia esistenza all’ombra d’alti alberi: sono qui fin da quando l’oscurità spaventava ancora gli uomini e le loro mani, abili e virtuose, di una virtù che ho sempre creduto simile alla mia, ma diversa per natura.
Il giorno in cui il Creatore collocò i miei giganti di smeraldo in cima a questi monti, con le loro fronde aguzze, così graziose e ondeggianti al vento, io ero lì, in riva a un fiume altrettanto verde, la mia dimora perpetua.
Arvo è il mio nome, inciso nel libro d’oro del cielo, e il mio compito è sempre stato quello di vegliare su quest’angolo sperduto, una scheggia precipitata dal Paradiso Terrestre, quando con sommo dolore, Colui che creò ogni cosa, scacciò l’umanità dalla sua casa originaria.
Per un tempo infinito, restai sulle rive del mio fiume e vagai per questi monti, cantando lodi al mio Signore, vegliando sulle sue creature e chiacchierando con i miei giganti.
Dapprima v’era molta quiete, nessun suono mortale poteva raggiungerci, ma un giorno, ecco la quiete infrangersi al primo pianto del primo bimbo umano, capitato qui per caso con la sua famiglia di nomadi, alla costante ricerca di un posto che li ospitasse.
Ho sempre avuto grande compassione per queste creature, orfane di terra e di cielo: il buio è divenuto per loro rifugio e condanna; mentre la Luce resta loro celata, insieme ai luoghi che, al principio, avevano abitato felicemente.
«Come questi alberi – pensai, allora – Che siano arrivati fin qui, poiché ne conservano ancora un qualche ricordo?».
Il pianto che udii quella volta, così dolce e disperato, suscitò in me la curiosità di scoprire qualcosa in più su quei mortali. Così, iniziai a far loro visita e ad osservarli attentamente: esseri sottoposti alla legge del Tempo.
Per loro non v’è eternità, solo attimi, e il loro vivere scorre come un ruscello flebile o come un torrente, a volte rumoroso, a volte delicato.
Cominciai a notare con sorpresa, che per quanto non potessero vedermi a causa del velo che ci separava, riuscivano comunque ad avvertire la mia presenza, specialmente i bambini, che sempre più numerosi arrivarono a giocare su queste sponde, o ad accompagnare i genitori nella pesca. Decisi di lasciarli fare, di aiutarli a sopravvivere, tale era la tenerezza che mi suscitavano.
Molti furono i piedini bagnati nelle mie acque, e le mani e le lacrime.
Non riuscivo a spiegarmi come dolore e gioia potessero convivere così bene in un unico, effimero essere. Alcuni di loro conservavano ancora qualche barlume della luce perduta; altri ne erano ormai completamente privi; ma più il tempo scorreva, più la loro bilancia pareva oscillare paurosamente da un lato all’altro.
Vennero guerrieri e popoli dal vivo intelletto, dalle voci aggraziate e dalle mani sporche del sangue dei loro fratelli.
Eppure, chiarore e oscurità in essi sempre convivevano e sempre si scontravano, ed io non riuscivo mai a odiarli fino in fondo, né ad amarli fino in fondo.
“Perché mai il mio Signore tiene tanto a costoro?” mi chiedevo, mentre i miei giganti cadevano a pezzi e si rialzavano, per far loro spazio.
Fu solo a un punto di questo eterno cammino, che il Creatore decise di rispondere alla mia domanda.
Una volta, mi trovavo a passeggiare lungo il mio fiume cantando lodi al Signore, immersa nei soliti pensieri, quando sentii la Sua voce che mi chiamava dai sommi cieli:
«Arvo, Arvo! Perché il tuo canto è divenuto incerto? Qualcosa ti turba.»
La Luce scostò le nubi e mi colpì dalle grandi altezze, trafiggendo il mio essere.
«Ti chiedi perché amo tanto gli umani? Anche se ora il buio è divenuto loro dimora e li riempie, ed ogni giorno mi dimenticano sempre più?»
Annuì, imbarazzata e impaurita dalla mia stessa sfrontatezza, ma subito la Luce mi rivolse un sorriso indulgente e distese la sua mano per accarezzarmi il capo.
«Non temere, conosco la tua compassione. Non ti punirò per questi dubbi, ma vi darò risposta. Porgi l’orecchio alla mia voce e aguzza la vista!».
Quando il mio Signore si fu allontanato, rimasi per un po’ a scrutare il cielo con aria meditabonda. Cosa aveva inteso dire? Ad ogni modo, feci come mi era stato ordinato.
Porsi l’orecchio alla voce dei miei giganti; poi a quella delle montagne; e, infine, a quella degli uomini che le abitavano. Aguzzai la vista, squadrando i riflessi del mio amato corso d’acqua, le sfumature smeraldine delle mie fronde; e poi, uno ad uno, i volti dei mortali che, da mattina a sera, popolavano quelle rive e quei boschi.
Tutta presa da tali cose, inavvertitamente, mi ritrovai a muovere un passo di troppo, scostando il velo che separa il mio mondo da quello dei mortali, e ritrovandomi così all’interno del Tempo.
Era una sera senza luna. La voce dei miei giganti non arrivava fin lì, né quella delle montagne. C’era solo un profondo silenzio, di quelli che non m’era mai capitato d’udire.
Mi fece così paura, che cominciai a correre tra gli alberi muti, alla ricerca di una fessura che potesse riportarmi indietro. Più cercavo, più non riuscivo a trovarla, per cui, dopo un po’, mi lasciai cadere al suolo, esausta, mentre gocce salate cominciavano a rigarmi le guance.
Ne raccolsi alcune con le dita: non riuscivo a crederci, erano lacrime! Ne avevo viste tante sul viso degli uomini, ma non ne avevo mai avute di mie. Mi rialzai in fretta e ricominciai a camminare, finché non arrivai di nuovo al fiume.
Lo guardai rattristata: da lì appariva così piatto e scuro, da non somigliare nemmeno lontanamente alla mia adorata casa. Cosa avrei dovuto fare per ritornarvi?
Stavo lì, a crogiolarmi nell’incertezza, quando una vocina sommessa mi raggiunse alle spalle, facendomi trasalire: «Cosa fai qui, Signora?».
Un bambino, sui dieci anni, scalzo e mingherlino, probabilmente figlio di uno di quei mortali violenti e crudeli che allora abitavano i miei boschi, era comparso improvvisamente di mezzo agli alberi. «Dici a me?» risposi io, con aria stravolta.
Lui annuì sorpreso, per poi domandare di nuovo: «Chi sei?».
Ancora incapace di accettare che un bambino umano riuscisse a vedermi, risposi di getto:
«Mi sono persa! Tu, invece, così piccolo, cosa fai qui a un’ora tanto tarda?» – e mi piegai sulle ginocchia per guardarlo meglio, incuriosita dalla sua presenza, almeno quanto lui lo era dalla mia.
«Io sono a caccia di lucciole! Di notte, la nostra casa è troppo buia e il mio fratellino ha paura – spiegò, avvicinandosi a sua volta- Quindi, ogni sera, prima di andare a dormire, vengo qui e ne catturo qualcuna, poi la metto in un barattolo di vetro e la lascio vicino al nostro letto.
Così, la stanza diventa meno cupa e lui smette di piangere!»
«E perché non ci vieni con tuo padre o tua madre?- gli domandai- Non sai che andare in giro di notte è pericoloso?».
Il bambino mi fissò per un istante, con un’espressione stupita.
«La mamma non l’ho più, e mio padre non è in casa. Anche stasera è uscito con i suoi amici prima del tramonto, e di certo non tornerà prima di domattina … E tu, bella signora bianca? Tu non hai paura di stare qui tutta sola?»
«Signora bianca? – ripetei, curiosa – Perché mi chiami così?»
«Perché sei bella e bianca! – insisté lui- Come fai ad avere la luce addosso, se la luna e le stelle non ci sono?».
A quelle parole, mi sporsi un poco per contemplare il mio riflesso nell’acqua: era vero.
Anche se avevo attraversato il velo, la Luce non mi aveva abbandonata, era ancora lì con me.
In effetti, mi aveva dato le sembianze di una giovane donna umana, di quelle che avevo visto tante volte passeggiare con i piccoli per mano, solo che le mie chiome erano del colore dei tronchi d’albero, e i miei occhi verdi come un fiume.
Ero sempre io, ma con una forma diversa, così tirai un sospiro di sollievo.
«Mio Padre mi ha regalato un abito di lucciole, per tenere lontane le tenebre!» – risposi, sorridendogli.
«Che fortuna! E come ha fatto a trovarne tante? Su questa riva, sono proprio rarissime. Vorrei passare dall’altro lato, ma non c’è modo. In più, non posso restare fuori troppo a lungo, il mio fratellino mi aspetta!»
Detto questo, mise su un visetto corrucciato e fece per spostarsi di qualche passo, alla ricerca delle sue lucciole.
«Un attimo! – lo trattenni – Come ti chiami?»
«Angelo …» disse lui, con aria interrogativa.
«Bene, Angelo. Vuoi che ti aiuti a passare dall’altra parte? Se vuoi, posso farlo!»
«Davvero? – cinguettò, speranzoso – E come?»
Rivolgendogli un altro sorriso rassicurante, lo presi per mano e lo accompagnai sino a un punto poco lontano. A un tratto, tra le rocce e l’acqua, ecco comparire un bel ponticello di legno, lungo abbastanza per raggiungere la sponda opposta, e luminoso abbastanza da farsi attraversare senza pericoli. Il bimbo, esterrefatto, mi rivolse un’occhiata impaurita e ammirata assieme.
«Ma questo ponticello io non l’ho mai visto» – Esclamò.
«È perché prima non hai mai guardato bene! – spiegai – Chi ha creato questo fiume, queste montagne e tutte le terre che vedi, vi ha posto pure molte strade e molti ponti, per percorrerle e per ritornare a casa. Sono sempre lì ad attenderci, però siamo noi a doverle scovare!»
Angelo annuì e corse ad attraversarlo, ma prima di farlo, si voltò di nuovo.
«Tu sei una fata, vero? – chiese, titubante – Per questo sapevi che c’era un ponte, per questo hai un vestito di lucciole!»
A quell’affermazione, mi lasciai sfuggire una piccola risata.
«Non so cosa sia una “fata”, ma di certo posso dirti che il mio nome è Arvo e vivo qui da molto, moltissimo tempo!».
«Arvo?» ripeté lui, come se avesse già udito quel nome, ma non ricordasse dove.
«Sono sicura che dall’altro lato troverai tantissime lucciole. Comunque, se un giorno il buio dovesse farsi troppo fitto, e tu avessi proprio paura di restare solo col tuo fratellino, chiamami pure! Verrò da te e ti farò compagnia!» – e senza aggiungere altro, mi allontanai.
Immediatamente, il velo si scostò ed io fui di nuovo circondata dalle voci dei miei giganti, delle mie montagne, e soprattutto, da quella del mio Signore.
«Bene Arvo! – disse subito – Hai capito ora perché amo tanto gli esseri umani?»
Io assentii felice, poi risposi sicura: «Perché pur vivendo nelle tenebre da molto, moltissimo tempo, c’è ancora qualcuno, tra loro, che va in cerca della Luce, e che in fondo al cuore conserva il desiderio di tornare a casa!».
Il mio Signore mi guardò soddisfatto, ed io tornai a contemplare i bagliori smeraldini della mia casa, ad intonare canti di lode e a chiacchierare con i miei giganti.
Da allora, però, decisi che avrei sempre lasciato il velo un po’ scostato: in questo modo, sia Angelo, che gli altri uomini che fossero capitati da quelle parti, avrebbero potuto sempre scorgervi qualcosa del mio mondo; cogliere qualcuno dei miei canti; magari anche chiamarmi, qualora le tenebre fossero divenute troppo fitte.